The weight
C’è il corpo al centro di The weight, inteso come fardello insopportabile, come peso enorme da portarsi addosso, come strumento affilato e pericoloso, indispensabile per raggiungere l’amore degli altri, se bello e forte, ma se "sbagliato", come nel caso dei personaggi del film, allora boomerang terribile, condanna che dall’amore degli altri allontana. E quindi dalla felicità, in una società spietata che non conosce come è bello amare gratuitamente. E’ un corpo prigione, quello del film, deforme oppure di uomo dentro la mente di donna. E allora solitudine e dolore, fino alla morte. Ecco l’estrema sintesi, e se vogliamo i temi di The weight, "il peso", in inglese, del vivere, soprattutto quando la vita ti ha giocato un brutto scherzo, e nessuno, a partire dalla famiglia, ha saputo metterci una toppa. Meno che mai una società rigida, fortemente indebolita da regole ferree. Jeon Kyu-hwan, coreano, ha girato un film molto coreano, appunto, non solo in quanto a cura stilistica. Da questo punto di vista, ovviamente, un quasi scontato buon film, di poche parole e molte immagini, liriche talvolta, stupende quasi sempre. Ma The weight è molto coreano anche nel mostrare, nel raccontare storie estreme seguendo una tradizione abituata a giocare col limite. Il film sceglie l’iperbole per parlare della rigida cultura Sud coreana, attraverso straordinari quadri che si riempiono di sesso triste, in quest’opera debordante e fin troppo aggrappata a sequenze disturbanti. Lo spettatore si imbatte in atti estremi come vedere amplessi tra un vivo e un morto, evirazioni, uccisioni ed abbandoni verso la morte. Col risultato di trovarsi davanti a un film che mentre cerca di comunicare una visione del mondo, anche con interessanti momenti di poesia, inciampa sull’etichetta di film shock, il che, se dà una parte riempie di The weight le pagine di giornale di questa Venezia ’69, dall’altra mette in ombra la ricerca filosofica del film, che pure c’è e si vede, ma rischia di farsi oscurare e fagocitare dalla "violenza" ripetuta di alcune immagini, che danzano non sempre a ritmo con la bellezza di forma del film, e con i sottotesti che questo veicola. E’ la storia di Jung, un uomo nato storpio e abbandonato in orfanotrofio da bambino. Poi adottato da una matrigna anaffettiva che lo scaccia quando lo trova a letto col fratellastro dal corpo di uomo e la mente di donna. Jung, diventato adulto, lavora e vive dentro un obitorio, lavando i morti, mangiando in silenzio, pensando. E’ malato di tubercolosi ma cura i corpi senza vita con estrema cura, con un viso calmo e malinconico che sembra attendere ormai svuotato che il tempo passi e la sua sorte si compia. Attorno alla sua storia ne orbitano altre, testimoni tutte di un dolore diffuso, di un contesto impazzito certamente e soprattutto coreano, ma che forse si allunga all’intero destino umano, visto che nel finale vediamo per un attimo l’intero e bellissimo pianeta terra girare e contenere tutto il pessimismo e il nichilismo messo in scena dall’autore.
Regia: Jeon Kyu-hwan; Interpreti: Cho Jae-Hyun, Ji-A Park Dong-bae; Produzione: TREEFILM