URO
Nel 1980 la Norvegia, per arginare il crescente consumo di droga pesante che l’ha condotta ad essere, oggi, ai vertici nelle statistiche di morti per overdose tra i paesi occidentali, costituisce la “URO”, forza di polizia con larga autonomia e propri standard operativi, tra cui infiltrazioni, lavoro sotto copertura e una stretta rete di informatori, dedicata esclusivamente alla lotta contro lo spaccio di stupefacenti.
Stefan Faldbakken, qui al suo primo lungometraggio, dopo i successi ottenuti, anche a Venezia, con The Cosmonaut, corto del 2001, struttura ed ambienta la pellicola all’interno di questo speciale dipartimento, e, più in profondità, all’interno di una squadra operativa, da cui il film prende il nome. Il suo protagonista è un agente dalla personalità travagliata, costellata di interrogativi sulla propria famiglia e su di un padre mai conosciuto. Privo di autocontrollo e refrattario alle regole ed alle disposizioni dei superiori, cosa che lo condurrà a ridursi un corpo estraneo all’interno del suo stesso team, correrà anche il rischio di soccombere contro un passato che ritorna inaspettatamente durante una missione.
L’intenzione del regista è quella di avvicinarsi ad uno stile di ripresa realistico tendente al documentario, muovendosi tra la necessità di drammatizzazione del plot e il desiderio di non sconfinare mai nella finzione più assoluta. Così la macchina da presa, quasi sempre a mano, in sintonia con la cruda fotografia, non sopravanza mai la storia ma si mantiene sempre un passo indietro senza suggerire ma limitandosi a catturare ciò che avviene in scena.
Il risultato è sufficientemente positivo. Il film raramente ha cadute di tono, riuscendo a coinvolgere grazie ad una sceneggiatura in cui snodi ed intrecci funzionano bene e ad una recitazione che ben si adatta allo stile del regista.
I personaggi hanno dei caratteri ben approfonditi ed immediatamente riconoscibili, il che permette la crescita ed il mantenimento di una tensione sempre ad alti livelli. Il protagonista, interpretato da Nicolai Cleve Broch, mostra da subito la propria complessità emotiva, lasciando intravedere, non in modo scontato, le sue possibili evoluzioni. Da subito si rimane abbastanza catturati dal clima che il film suggerisce esorcizzando una noia che pur potrebbe esistere data la non proprio assoluta originalità della storia. Molto si deve ad una rappresentazione visiva che preferisce il metodo dell’esasperazione piuttosto che un ricorso a compromessi buonisti e politicamente corretti che avrebbero finito per mitigare eccessivamente la forza di impatto che, per i poco più di novanta minuti della visione, è la principale fonte di divertimento.