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VENEZIA 63: SAKEBI (RETRIBUTION)

Pubblicato il 3 settembre 2006 da Alessia Spagnoli


VENEZIA 63: SAKEBI (RETRIBUTION)

Morte alla discarica: l’incipit tra Pasolini e Dostoevskij racchiude una potente immagine-simbolo di quanto la vita moderna sia privata del suo valore in un mondo ogni giorno più degradato, con quelle periferie dimenticate delle grandi città sempre più simili a moderni inferni metropolitani.
Personaggi del sottosuolo vengono schizzati con tratto deciso, coinvolti, sembra, quasi loro malgrado, in una serie di orribili delitti, come se finissero impantanati in quella melma.
Di poliziotti cinici e violenti il cinema giapponese sembra quasi non poter fare senza (da Kitano allo stesso Kiyoshi Kurosawa), le storie provenienti dal Sol Levante pullulano da sempre di uomini di legge corrotti e solitari, alle prese coi loro fantasmi personali. Sono spettri che qui l’autore decide di rendere "reali", affidando il suo complesso discorso a un film che è a tutti gli effetti un ibrido tra un poliziesco vecchio stampo e un puro horror moderno.
La commistione fra generi funziona però, a dire il vero, solo a fasi alterne: la parte poliziesca, i cui meccanismi sono padroneggiati magistralmente dal regista, è affrontata con risultati di certo più pregevoli e convincenti rispetto a quella orrorifica, un pò zoppicante, con una protagonista fantasma troppo identica a Sadako (il cui urlo lancinante e protratto nel tempo è tuttavia destinato a riverberarsi a lungo nella memoria dello spettatore).
L’horror, come si sa, è parente prossimo di generi altrimenti diversi, come la fantascienza o il thriller, ma ha poco a che spartire con il cop-movie, così legato alla cura per il dettaglio realistico. L’horror giapponese, poi, si accosta ancora più da presso ad un genere precipuo del cinema nipponico, il cosidetto Kaidan, ovvero "storie di fantasmi", qui compenetrato, come si diceva in modo non del tutto soddisfacente, nel più classico genere contenitore. Ma il discorso dell’autore batte, come sempre, più strade complementari e assume allora diverse sembianze che allargano gli orizzonti del genere e guadagnano al film una dimensione maggiormente esistenzialistica. Come leggere altrimenti la riflessione sull’amore come nuovo orrore della quotidianità, l’unico terremoto in grado di squadernare le labili certezze cui ci aggrappiamo (ed ecco allora che un insospettabile filo rosso lega insieme Sakebi al bel film di un autore altrimenti a prima vista lontanissimo come Resnais)?
Strepitosa come sempre la regia del cinesta giapponese, dotato di quella mano sicura unita ad un equilibrato senso del racconto di cui si avverte la mancanza in questi giorni di rassegna lagunare, in cui tanti cineasti sembrano vacillare per poi finire, alla lunga, inesorabilmente schiacciati sotto il peso dei loro progetti, più o meno ambiziosi.
Probabilmente non uno dei migliori film di Kurosawa, ma come sempre, ben superiore alla media.

(Sakebi); Regia: Kiyoshi Kurosawa; sceneggiatura: Takashige Ichise, Kiyoshi Kurosawa; interpreti: Kôji Yakusho, Manami Konishi, Hiroyuki Hirayama, Joe Odagiri; produzione: Oz Co Ltd; distribuzione: Mikado; origine: Giappone, 2006; durata: 103’


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