Venezia 64 – Exodus - Orizzonti
Immaginate un vecchio luna park in riva al mare ormai fatiscente; il cancro della ruggine che ha iniziato a corrodere ogni giuntura di quelle che un tempo erano giostre.
Immaginate che questo luna park diventi improvvisamente un ghetto in cui rinchiudere gli elementi indesiderati della società (rifugiati politici, disoccupati, piccoli criminali, drogati, minoranze etniche) dilatandosi sino a far deflagrare qualsiasi recinzione o rete metallica, rigettando quegli ‘scarti umani’ in una società orami epurata.
Immaginate, insomma, l’Esodo raccontato nel Vecchio Testamento, portato ai giorni nostri, per avere una qualche idea di Exodus, il nuovo film di Penny Woolcock.
La regista riprende il racconto narrato nel testo biblico attualizzandolo in un tempo indefinito che assomiglia, però, come una minaccia ad un possibile futuro prossimo. Moses, figlio adottivo del politico populista Pharoah, scopre tragicamente le proprie origini, molto più umili della vita sino a quel momento condotta. Rinchiuso a Dreamland, il quartiere-ghetto creato dal padre, per avere ucciso un poliziotto, inizia un percorso di conoscenza e rabbia che lo condurrà a capo di un esercito di reietti, il cui unico scopo è rientrare in quella stessa società che di loro si era disfatta.
È un film complesso Exodus come del resto l’argomento che tratta. La Woolcock vi si accosta con impeto, sviluppando una narrazione che possiede bei momenti visivi ma che a volte pecca un po’ per ingenuità, compiacendosi troppo, dimenticando la secchezza espressiva dei passaggi migliori. Molto bello è il lavoro sui personaggi specie se rapportato al testo biblico. Nessuno di essi possiede un solo colore. Ognuno è dilaniato dall’intreccio interiore di colpe e virtù o, meglio, di virtù che divengono colpe per inerzia, senza volontarietà, come accade quando il destino prende il sopravvento sull’umano agire. E la regista spinge talmente all’estremo questo fatalismo da tramutarlo in condanna. A cosa servono, dunque, le faide, le lotte intestine, quando tutti siamo destinati ad un’unica grande fine, quando, prima o poi, le maree si richiuderanno sopra ogni testa. La Woolcock grida su di un’umanità impossibile ormai da dividere in buoni e cattivi perchè, sembra volerci dire, le ragioni si appiattiscono in un incessante e lancinante scambio di ruoli in cui la vendetta sopravanzerà sempre la giustizia.
Girato a Margate, una piccola frazione balneare nel sud dell’Inghilterra frequentata da villeggianti appartenenti alla classe operaia, Exodus sfrutta il naturale degrado in cui versa la cittadina per il suo scenario apocalittico. Pur cedendo qualcosa alla retorica, il registro usato dalla Woolcock è pienamente in linea con le tematiche espresse, alternando momenti visivamente e concettualmente straripanti (il rogo dell’enorme fantoccio fatto di spazzatura è molto suggestivo) a piccole pause intimiste. Film coraggioso e stimolante, sicuramente da apprezzare.
(Exodus) Regia e sceneggiatura: Penny Woolcock; fotografia: Jakob Ihre; montaggio: Brand Thumin; musica: Malcom Lindsay; scenografia: Christina Moore; interpreti: Bernard Hill (Pharoah Mann), Daniel Percival (Moses), Ger Ryan (Batya Mann), Clare – Hope Ashitey (Zipporah); produzione: Artangel; origine: UK; durata: 111’