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Volver

Pubblicato il 20 maggio 2006 da Ramon Gimenez de Lorenzo


Volver

Avevamo lasciato Pedro Almodovar, dopo il suo ultimo film La mala educacion, in preda a una vera crisi di nervi: oltre ai numerosi problemi di casting e produzione avuti prima, durante e dopo le riprese, si era dimesso, insieme al fratello e produttore Agustin Almodovar, dall’Accademia delle Arti Cinematografiche spagnola per protesta contro il sistema di voto per le candidature al premio Goya. Il film venne premiato solo con 4 Goya, contro i 14 di Mar Adentro di Alejandro Amenabar. Conseguenza di ciò la mancata nomination all’Oscar ancora una volta per il film di Amenabar. Questo era il 2005.
Maggio 2006, Festival di Cannes, Pedro Almodovar è tornato, ed è ricco di gioia. Volver è il nuovo verbo che si diverte a declinare in tutti i tempi, passato, presente e futuro, usando tre generazioni di donne e dimostrando di essere tornato l’istrionico regista delle donne e solo delle donne, protagoniste della sua vita e della sua arte.

Il regista torna al cinema degli esordi. Mentre La mala educacion era stata, per certi versi, una brutta copia de La ley del deseo, Volver riprende e rinnova sotto una luce più matura l’aspetto autobiografico di Che ho fatto io per meritare questo?.

Torna ai posti della memoria e del ricordo. La Mancha e Madrid. La prima nella descrizione della cultura della morte tipica della terra marcega, nel vento così ricco di energia, il Solano, che spazza la terra, incendia boschi e cuori, solleva continuamente la polvere annebbiando la mente e lasciando campo libero alle passioni che bruciano l’anima.
La seconda nella descrizione del barrio madrileno di San Blas, un quartiere operaio dove le vite e i sogni degli immigrati spagnoli si mescolano a quelli di una variopinta multietnicità. Quartiere proletario della metropoli dove i rapporti di vicinato e conoscenza tra le persone sono insignificanti rispetto a quelli instaurati nel paese di origine. “Qui posso uscire perché non mi conosce nessuno”, le parole di Irene mettono proprio in luce tale aspetto, invitando ad un confronto tra i rapporti interpersonali esistenti nei due luoghi.
È la Madrid delle donne che sopravvivono alle piccole tragedie quotidiane, vissute con ironia e un pizzico di disilluso distacco, con espedienti sempre nuovi, reinventandosi ogni giorno, trasformandosi da parrucchiere improvvisate a donne delle pulizie, da ristoratrici bravissime a donne barman provette.

Torna al rapporto con la madre e la sua morte, la sua giovinezza passata nella meseta della Mancha, a Calzara de la Calatrava. Il suo rapporto con lei è così intenso e completo da irretire tutti i sensi: l’odore della madre che, a distanza di anni, ravviva i ricordi di Sole e poi di Raimunda.
Nel cortile di casa le donne si riunivano per chiacchierare. Lui piccolo in mezzo a loro assaporava i legami degli eventi nutrendosi della realtà digerita e rigurgitata da queste sacerdotesse del tempo, mentre gli uomini conducevano la loro misera esistenza nei campi. La separazione dei ruoli, netta e chiara, intima frontiera da superare per essere un trasgressivo o una trasgressiva come la mamma di Agustina, prima hippy del paese. Alcune scene a riguardo sono bellissime: la stanza delle preghiere, le condoglianze date dalle donne del paese a Sole, il cortile pieno di uomini nel quale Sole erroneamente irrompe, la marcia funebre dietro il feretro, i baci continui e affettuosi.
Quest’aspetto sacrale della donna pervade l’intera pellicola e viene fortemente affermato già nelle prime scene del film. Solo donne ci sono nel cimitero a spolverare, sembra inutilmente, le tombe dei loro cari. La cultura della morte, elemento chiave della filmografia del regista, non è qui descritta nel suo aspetto funereo. Vi è un legame simbiotico con la vita, la stessa Agustina si cura il pezzo di terra nel cimitero che in futuro, alla sua morte, sarà destinato a riceverla. Quando alla fine del film a quest’ultima le appare Irene, non ha il minimo timore pur considerandola un fantasma, la accoglie come fosse ancora viva, senza chiedersi come possa avvenire ciò.
“È mia madre che mi ha ispirato tutti i personaggi e lei invoco”, dice Almodovar, “io con lei continuo a parlare, è sempre presente, la vedo e ne sento ancora i discorsi. Lei che mi raccontava del fantasma del nonno che andava a tampinare mio cognato. Veniamo al punto: il film è sulla cultura della morte, specialità regionale. Ma non è una tragedia: specialmente le donne, nel lutto e nel dolore si sentono realizzate, tutti al paese credevano che i defunti tornassero tra noi, la morte è accettata in modo naturale. Io sono agnostico, ma da bambino convivevo col nonno scomparso e oggi mi piace che altri ci credano. La mia relazione con la morte non è risolta. Nella Mancha le donne vanno a ripulire le tombe, ci fanno i pic nic al cimitero, con allegria, perché la morte è anche vita e grazia: è la cultura del ritrovarsi, del tornare”.

Torna alla non-descrizione dell’uomo, simbolo e portatore incurante di dolori ancestrali non solo per il regista, ma anche per tutte le sue creature, madri, mogli sorelle e figlie. Quest’ultime vivono tutte la loro piccola battaglia di emancipazione contro l’altro sesso. È l’ennesimo esorcismo che compie Almodovar verso il suo passato pieno di figure maschili prepotenti, dominatrici, angoscianti. Aveva provato ad affrontare le memorie paterne, piene di autorità e repressione, in passato in Matador, ne La ley del deseo e per ultimo ne La mala educacion, ma è più semplice per lui evitarle, come in questo film.

Torna alle ‘chicas de Almodovar’ a lui più care, una volta solo sue attrici, ora sue care amiche. Il regista dona nuova forza, vitalità e dignità alle donne raccontandole da sole, senza uomini.
L’universo delle sue donne rinasce: tra tutte la prima è Carmen Maura, con la quale il regista non aveva più lavorato dopo Donne sull’orlo di una crisi di nervi del 1987. La sua interpretazione è completa e non c’è nulla da aggiungere. Matura, vibrante. È così intensa e umana che si merita l’accostamento esplicito alla Magnani, fatto dal regista con una citazione della viscontiana Bellissima attraverso la tv che Irene guarda spesso.
L’altra donna è Penelope Cruz, le cui forme sono così generosamente evidenziate da Almodovar: accattivante l’inquadratura plongè sul lavello contenente un piatto tondo bianchissimo mentre lava il coltello che presto verrà usato da Paula per uccidere il padre Paco. Ma il regista non si ferma qui: catturano l’anima i due occhi neri di Penelope. La sua interpretazione esplode nelle lacrime versate e nelle lacrime che colmano gli occhi senza versarsi e ci commuoviamo con Irene, quando Raimunda canta per la figlia Paula Volver di Garrel e le nostre emozioni ci rimandano a Piensa en mi cantata da Marisa Paredes mentre la figlia, interpretata da Victoria Abril era in carcere nel film Tacones Lejanos del 1991. Naturale è il confronto con il personaggio di Gloria di Che ho fatto io per meritare questo? interpretato nel 1985 dalla stessa Carmen Maura. Un omicidio si compie in entrambe le storie e se diverse sono le cause che portano a ciò e diversi gli sviluppi degli avvenimenti, rimane però identica l’intensa descrizione di instabilità economica, sociale e familiare dei personaggi vinta attraverso una vitalità tutta al femminile.
Conclude questa carrellata sulle donne di Almodovar un cammeo eccezionale di Chus Lampreave che interpreta zia Paula. L’attrice spesso presente nei film di Almodovar è perfetta nella parte della smemorata zia. Se si ricorda la sua magistrale interpretazione in Matador, si ritrova quella dolce e determinata superficialità del personaggio che passa su tutto quasi distratta da altre cose e considera tutto normale, senza scomporsi mai: la naturale incoscienza della donna che ha subito ogni sopruso e non ha paura più di nulla.
Pedro Almodovar ha trasformato i suoi fantasmi del passato in personaggi veri e propri, ha ridato vita a emozioni e angosce vissute da giovane attraverso le sue storie e i suoi film: i fantasmi di Almodovar sono degli esseri vivi, eccezionali, pieni di amore. “Smettila figlia mia, altrimenti mi farai piangere”, sussurra Irene alla fine del film, “e tu sai che un fantasma non piange mai”, e piangendo va via.

(Volver) Regia, soggetto, sceneggiatura: Pedro Almodovar; fotografia: José Luis Alcaine; montaggio: José Salcedo; musiche: Alberto Iglesias; scenografia: Salvador Parra; costumi: Bina Daileger; interpreti: Penelope Cruz (Raimunda), Lola Dueñas (Soledad), Blanca Portillo (Agustina), Carmen Maura (Nonna Irene), Yohana Cobo (Paula), Chus Lampreave (Zia Paula), Antonio De La Torre (Paco); produzione: El Deseo S.A.; distribuzione: Warner Bros Italia; origine: Spagna; durata: 120’.


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