Achille e la Tartaruga - Venezia 65 - Concorso

È lo stesso Kitano a definire Akires to kame (t.i. – Achille e la Tartaruga) l’episodio conclusivo della sua ideale trilogia sull’arte e lo spettacolo dopo Takeshis’ (2005) e Kantoku Banzai! (2007). La differenza tra questa sua ultima fatica e i due precedenti capitoli è sostanziale. Quando lo schermo si impossessa della poetica e delle visioni del regista nativo di Tokyo non si sa mai cosa aspettarsi. Si viaggia verso derive imprevedibili ed impreviste che toccano gli estremi tra loro più lontani. Demenzialità e ironia sono sempre precedute e accompagnate da un’amarezza e una malinconia di fondo che non risparmiano alcuna delle sue pellicole. In Akires to kame il paradossale, pur presente e protagonista delle sequenze più divertenti, non si abbandona mai all’esasperazione schizofrenica di Kantoku Banzai!, restando costretto nelle atmosfere agrodolci che il film mette in mostra.
Machisu, figlio unico di un ricco mecenate, sin da bambino coltiva la sua passione per la pittura prediligendo il momento della creazione artistica in qualsiasi frangente delle sue giornate. La morte del padre segna la fine dei suoi privilegi aprendogli una realtà fatta di miseria e di orfanotrofi. Cresciuto, Machisu non abbandona la sua passione cercando di pagarsi gli studi artistici con lavori saltuari e sporadici. Il successo però non arriva e la terza fase del film ci restituisce un protagonista ormai di mezz’età (interpretato dallo stesso regista), sposato e padre di una ragazza, sempre alla ricerca del successo, dell’opera in grado di renderlo finalmente famoso. Così però non sarà e solo nell’epilogo, dissacrante come era più che lecito aspettarsi, Machisu si renderà conto di come non siano fama e celebrazioni a giustificare un processo artistico, quanto piuttosto l’amore e la passione. Capito questo, finalmente riuscirà nell’impresa in cui Achille aveva fallito: raggiungere e superare la tartaruga (il film riprende, già dal titolo, il secondo paradosso di Zenone di Elea secondo cui se Achille avesse concesso un piede di vantaggio ad una tartaruga la distanza tra Pie’ Veloce e la testuggine si sarebbe ridotta sempre di più senza, però, mai esaurirsi del tutto.).
C’è molto di Kitano nel film. C’è il senso del cambiamento di un regista che ha mutato tanto della sua vita e del suo modo di fare cinema dopo il grave incidente in moto. Spariscono le divagazioni irreali dei suoi ultimi lavori a favore di un racconto lineare che ripercorre dal principio la vita del protagonista. Ci sono i suoi colori, i suoi quadri finalmente svelati al pubblico, confessione parziale, si può supporre, di stati d’animo e angosce dell’autore. Akires to kame possiede forza ed eleganza, fa sorridere, ma lascia che lo schermo si riempa innanzitutto della deflagrante amarezza che scena dopo scena, senza distinzioni tra età infantile ed adulta, Kitano dipinge, proprio come il personaggio cui presta il volto, e che culmina nella distruzione di tutti i suoi quadri.
La sequenza finale non cancella una briciola della malinconia del film lasciando però la ribalta ad un ultimo e non atteso velo di speranza, simbolo e sintomo, forse, della ritrovata serenità del suo protagonista e, con lui, del suo autore. Dopo il deludente esordio con Jerichow, il concorso ha il suo vero inizio.
(Akires to kame); Regia, soggetto, sceneggiatura: Takeshi Kitano; fotografia: Katsumi Yanagijima; montaggio: Takeshi Kitano, Yoshinori Ota; musica: Yuki Kajiura; scenografia: Norihiro Isoda; interpreti: Beat Takeshi, Kanako Higuchi, Yurei Yanagi, Kumiko Aso; produzione: Office Kitano inc.; distribuzione: Celluloid Dreams; origine: Giappone; durata: 119’
