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Americana – The Event

Pubblicato il 9 marzo 2011 da Marco Di Cesare


Americana – The Event

Chissà quanto può essere forte quel fremito che immaginiamo scorra lungo i polpastrelli degli sceneggiatori che lavorano all’interno della serialità americana, quando si apprestano a lasciare impresse sul monitor le loro idee: pensieri, questi, che a volte sanno essere innovativi e che, anche nel caso di risultati meno felici, mostrano una forte consapevolezza da parte degli autori nell’essere – e, forse, considerarsi - i principali depositari di un passato che ritorna, più o meno rivitalizzato grazie alle reinterpretazioni che toccano entrambe le sponde rappresentate dai dettami dei generi di ispirazione (spesso tra loro ibridati, come accadeva nella New Hollywood cinematografica di qualche decade fa) e da una più spinta autorialità, a volte prestando una particolare attenzione ai desideri di un pubblico che si spera essere il più vasto possibile, oppure, in altre occasioni, cercando di anticipare - se non di creare da sé - una propria e particolare audience che possa essere forgiata e abituata a nuove forme di narrazione. Si pensi, difatti, alla forte attenzione che ormai i mondi finzionali della serialità richiedono ai propri spettatori nel seguire le vicende narrate, oltre che una sempre maggiore cultura legata sia al passato che a un presente dove si forgiano innumerevoli nuovi prodotti televisivi, in un mercato pervaso di forte concorrenza tra vari soggetti (come è giusto che sia, nonostante certe ’particolarità’ di un libero mercato schiavo di sé stesso che uccide anzitempo alcuni suoi pregevoli prodotti, mentre ne lascia sopravvivere altri fin troppo a lungo), riuscendo a far convivere mainstream e innovazione l’uno accanto all’altra e, in taluni casi, addirittura all’interno del medesimo lavoro.

E, nella fattispecie, proprio The Event si configura come la messa in scena di situazioni già (intra)viste in vari precedenti esempi (qualcuno altamente illustre), rappresentando un mosaico di idee già note, seppure miscelate con arguzia e alcuni trucchi del mestiere, per un occhio derivativo che guarda a un pubblico ormai emancipato, cercando di stupirlo creando l’evento, ma senza arrecargli una esagerata violenza mentale (diversamente, perciò, da quanto accadeva nei migliori spunti di Lost), quasi per non irritare il lato maggiormente mainstream che alberga in molti di noi, proponendosi quindi di evitare le vette più impervie, quelle di inusitata problematicità, che sono state più volte oltrepassate dal capolavoro di J.J. Abrams e Damon Lindelof.
Trasmesso in America dalla NBC e, in Italia, quasi in contemporanea da Joi (minisito sulla serie), The Event è innervato di pura adrenalina, sostanza nella quale sono state diluite parti di thriller, fantascienza, teorie del complotto, forti dubbi morali e richiami alla situazione odierna degli Stati Uniti. Si pensi, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, alla presenza di un Presidente giovane e di colore, figlio di una profuga cubana: una figura, questa, che riprende quella di Barack Obama, ponendola fin dentro la storia americana, quella di un Paese che da sempre vuol mostrare una presunta capacità di accogliere l’altro (senza ovviamente dimenticarsi della storia televisiva di un altro presidente nero, il quale ha anticipato Obama di qualche anno, nel fondamentale 24 che sembrerebbe essere stato un’altra delle fonti di ispirazioni per The Event). Un presidente che qui si chiama Elias Martinez (il Blair Underwood di Dirty Sexy Money e In Treatment), il quale si mostra assai diverso da vari suoi predecessori, così attento nel far rispettare i diritti umani e così paziente – perlomeno nei primissimi episodi – verso i bisogni di alcuni prigionieri che certi dei suoi collaboratori considerano solamente come dei pericolosi terroristi.
Quei prigionieri, nello specifico, sono novantasette, rinchiusi sul Monte Inostranka in Alaska. Novantasette persone (?) che si trovano lì fin dal 1944, schiantatesi su quelle terre inospitali il 2 novembre. Esteriormente del tutto simili a noi, forse provengono da un altro pianeta, come si evincerebbe dal fatto che invecchiano molto più lentamente degli umani. Inoltre le loro conoscenze tecnologiche sono molto più avanzate delle nostre. In tanti anni, però, non si è ancora ben compreso cosa vogliano veramente. Si viene solamente a sapere che ve ne sono altri come loro, lì fuori, liberi.

Al di là di certe possibili vicinanze con 4400 e con V, al di là di certi topoi del genere – o dei generi, se si preferisce – una poetica dell’Altro e della sua conoscenza si trova alla base di The Event (come, ancora, in Lost e in FlashForward), così come quella, a essa collegata, della riconoscibilità della Falsità insita nell’altro (e proprio il Presidente Martinez, da più parti inizialmente tacciato di essere troppo idealista, afferma di amare guardare il proprio interlocutore negli occhi, per capire se questi stia o no dicendo la Verità). Da tale (in)capacità di discernere il vero dal falso, il bene dal male, discende ovviamente la sequenza di intrighi e di colpa di scena che si susseguono a velocità sostenuta e la richiesta di attenzione rivolta allo spettatore. Vero e falso e incomprensibilità che qui, però, non vengono portati alle estreme conseguenze, visto che si procede passo dopo passo, in un accumulo lineare (diversamente, perciò, anche dal mosaico spazio-temporale di FlashForward o dagli innumerevoli piani che convivono in Lost) che procede per flashback esplicativi o atti ad approfondire un personaggio, la sua interiorità o le sue motivazioni, viaggiando avanti e indietro nel tempo. Viaggio che assume la frenesia di una corsa contro il tempo, il quale, ogni volta che si è portata a termine una tappa, prima del cliffhanger di fine episodio, dà l’idea di azzerare il tempo medesimo che, altrimenti, continuerebbe a scorrere vorticoso (basti pensare di nuovo a 24).
Ancora, tornando alla tematica dell’Altro, si dovrebbe sottolineare la centralità della figura femminile, la quale per antonomasia sullo schermo incarna l’essenza dell’estraneità e che qui viene delineata a partire dai topoi di una sua rappresentazione classica e stereotipata, seppure in alcuni esempi riletta sotto lo sguardo dei tempi moderni: da Sophia (Laura Innes), leader e regina madre dei misteriosi prigionieri, alla First Lady Christina (Lisa Vidal); dal glaciale e incredibile fascino della killer Vicky Roberts (Taylor Cole), la cui bruna e pericolosa sensualità è opposta a quella più rassicurante, adolescenziale e familiare del volto di una Sarah Roemer che porta in scena il personaggio di Leila, giovane futura sposa di Sean (Jason Ritter), un uomo normale colto in un gioco mortale (come nelle spy story di Hitchcock), aiutato da una inizialmente riluttante agente dell’FBI (Heather McComb).
Sinceramente è uno spettacolo alquanto godibile The Event, con certi discorsi e dubbi morali affrontati anche senza ingenuità, ma che, dopo cinque episodi, non si è ancora deciso a spiccare il volo e che, anzi, sembra accontentarsi di sé stesso, svilendo non poco la profondità e la ricerca linguistica portate in scena da molti dei lavori ricordati lungo questo articolo, preferendo mantenersi poco al di sopra della linea di galleggiamento. E il suo peccato maggiore è proprio quello di non voler stupire in quanto pura forma.


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