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BABEL

Pubblicato il 25 maggio 2006 da Salvatore Salviano Miceli


BABEL

Se ce ne fosse stato ancora bisogno, ecco arrivare la conferma che Alejandro Gonzàlez Inàrritu può essere considerato uno dei cineasti più interessanti venuti fuori in questo nuovo millennio di cinema. La tua terza pellicola arriva puntuale e preziosa a confermare le sue enormi capacità di regista, ed in maniera piuttosto sorprendente anche a ribadire una lucidità progettuale che non tutti fino ad ora gli avevano riconosciuto. Molti infatti avevano storto il naso di fronte a 21 Grammi, vedendoci un passo indietro rispetto al folgorante esordio di Amores Perros, o meglio un tentativo più flaccido di riproporre il suo discorso di scomposizione temporale dei meccanismi del melodramma. Il comunque intenso film interpretato da Sean Penn e Naomi Watts è prima di tutto servito ad Inàrritu per inserirsi dentro le logiche produttive e quindi economiche del cinema americano, ed in secondo luogo per sperimentare la sua poetica cinematografica dentro appunto tali nuovi meccanismi.

Con Babel il regista compie a mio avviso un enorme passo avanti, realizzando un’opera di sorprendente maturità; dal punto di vista drammaturgico il fido sceneggiatore Guillermo Arriaga alza decisamente il tiro, intrecciando tre storie sparse per il mondo che hanno in comune, più che il tenue filo logico legato allo sparo di un fucile, un sotterraneo malessere contemporaneo: già l’esplicativo titolo del film racconta infatti dell’incapacità di comunicazione che affligge la società tecnocratica dei nostri giorni, e che si tramuta nella sfasatura esistenziale del singolo individuo. Di fronte ad un deciso ampliamento di intenti, ad un high-concept che necessitava di essere raccontato attraverso le più familiari micro-storie del suo cinema, il regista ha dimostrato tutta la sua sapienza: invece di continuare a forzare l’estetica della sua idea di messa in scena, che vedeva nel montaggio atemporale e nella fotografia desaturata i suoi stilemi portanti, Inàrritu ha optato per una regia molto più semplice ed intimista rispetto al passato, arrivando però al solito, struggente contatto umano con i corpi ed i volti dei suoi sempre amati attori. Babel in questo modo si presenta all’occhio di chi guarda come una pellicola dal contenuto universale e dalla forma invece terrena, tangibile e palpitante. La linearità della visione punta quindi dritta al cuore, riuscendo a centrare il difficile obiettivo di arrivare alla rarefazione passando per la semplicità. Tutti partecipano a questo tragitto comune: dal cast artistico da accomunare in un sentito applauso, a quello tecnico, in cui i soliti Rodrigo Prieto e Gustavo Santaolalla spiccano come professionisti di rara sensibilità.

Se nel palmares di Cannes 2006 un premio è assolutamente indiscutibile, questo è quello per la regia andato ad Inàrritu. L’autore messicano ci ha regalato un lungometraggio che è insieme continuità con il suo prezioso lavoro precedente ed insieme coinvolgente rinnovamento all’interno di canoni stilistici già ampiamente sperimentati. Babel si pone come opera di enorme valore cinematografico, il cui lavoro sopra strutture narrative ben riconoscibili non deve essere assolutamente scambiato per retorica. Guai a confondere la semplicità della storia con la banalità!

Regia: Alejandro Gonzàlez Inàrritu; soggetto e sceneggiatura: Guillermo Arriaga; fotografia: Rodrigo Prieto; musica: Gustavo Santaolalla; montaggio: Stephen Mirrione, Douglas Crise; scenografia: Brigitte Broch; costumi: Michael Wilkinson; interpreti: Brad Pitt (Richard), Cate Blanchett (Susan), Gael Garcìa Bernal (Santiago), Adriana Barraza (Amelia), Elle Fanning (Debbie); produzione: Jon Kilik, Steve Golin; distribuzione: 01 Distribution; origine: Usa; durata: 142’.


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