DOLLS

A furia di parlare della morte, Kitano deve essersi impratichito a navigare l’Ade sulle cui sponde ha potuto reclutare i personaggi per Dolls. Le marionette sono quelle del teatro Bunraku, la cornice finzionale del film, ma nel momento in cui si trasformano in persone a loro volta queste diventano fantasmi. Il mondo di questo film, che dura le quattro stagioni, è purgatoriale. I due protagonisti principali, Sawako e Matsumoto, sembrano comparse della processione che si svolge nella cantica dantesca, mentre attraversano la natura uniti uno all’altro da un legaccio. Da lì gli uomini possono vedere la loro vita passata e guardare in viso la pena della condizione umana. Come nella Commedia i materiali di partenza sono episodi quasi cronachistici capitati a persone comuni, ritrattati poi in una mescolanza sublimemente tragica. I due giovani trasportano nel loro viaggio altre due storie. Nella prima quella di un capomafia che riconosce seduta in un parco la ragazza che lo aveva aspettato tutta la vita, ogni sabato, nello stesso luogo. L’altra è quella dell’operaio fan di una giovane popstar rimasta sfigurata il quale corona il suo sogno di vivere accanto alla sua beniamina al prezzo della cecità. Quando infine, i due giovani riacchiappano con la loro vicenda tutte le storie il film sale in cima, ma proprio in cima, e rimane lì su a penzolare come un capestro. Le storie procedono alternatamente con incastonati i più classici flash-back kitaniani, ruvidi come tasselli intagliati; le sequenze rallentate, geometricamente ma anche comicamente sezionate e le giravolte senza peso della mdp all’interno di una discoteca. Dolls, questo Racconti della luna pallida d’agosto del cinema contemporaneo, dimostra una impostazione progettuale più ampia rispetto a quella delle prove precedenti, un disegno pensato molto, un allargamento di prospettiva rispetto al monologo mortifero condotto dallo stesso Takeshi nei panni dell’attore Beat. Da qui forse le riserve registrate da parte del pubblico riguardo una paventata ridondanza, forse viziato infantilmente dalle gag che ogni volta impennavano il racconto. L’estetismo - altra parola sussurrata - esiste, ma è lo stesso Kitano a rispondere che la bellezza tragica della morte è un portato della fonte, le storie tipiche del teatro Bunraku dove, come nelle nostre arie, il canto nasce dai ciarpami del vecchio teatro, fatto di storie anche becere e di un decadentismo fatto a misura per l’uomo della strada. Qui però, una certa dose di cinismo domina l’andamento delle scene dove piangi due ore senza versare una lacrima. Questi problemi di collocazione nascono proprio dal fatto di collocare Kitano come autore nel senso tradizionale dell’immaginario artistico, traduttore della sostanza poetico/visiva. Nient’affatto, se si apprezza Kitano lo si deve attendere piuttosto sul versante dell’invenzione, dove il gesto visuale costruisce di volta in volta la situazione quasi in una ostentazione primitiva. Ecco perché, in lui, sentimento, scatto feroce, sciocchezza e staticità sono pioli della stessa scala espressiva e così, alla domanda sul valore simbolico di una farfalla schiacciata in terra, il regista ride, dicendo che terrà in conto di tale interpretazione per il suo prossimo film, che no, la farfalla stava proprio lì senza altra spiegazione. Kitano sembra ammonire: non esistono le spiegazioni, il significato è uno, il film lo comprende pienamente e lavora per stringerlo in un messaggio unitario, liberando ancora e meglio di prima uno straordinario amore per la vita.
[5 settembre 2002]
regia, sceneggiatura e montaggio: Takeshi Kitano fotografia: Katsumi Yanagijima,musica: Joe Hisaishi interpreti: Miho Kanno, Hidetoshi Nishijima, Tatsuya Mihashi, Chieko Matsubara, produzione: Masayuki Mori, Takio Yoshida per Bandai Visual e Office Kitano origine: Giappone - 2002, distribuzione: Mikado
