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FESTA DEL CINEMA DI ROMA - Gas

Pubblicato il 16 ottobre 2006 da Andrea Esposito


FESTA DEL CINEMA DI ROMA - Gas

Un film difficile da vedere. Primo per la scarsa visibilità (uscito nel 2005, la censura ne ha vietato la visione ai minorenni, rendendo ancora più difficile la sua circolazione). Secondo perché è un film effettivamente difficile, senza concessioni. Duro, intenso e sopra le righe. Che è doveroso vedere.

Gas segna l’esordio alla regia cinematografica di Luciano Melchionna, che traspone qui una sua opera teatrale di successo. Il film, ambientato a Latina, gira intorno a un gruppo di ragazzi “fuori”, un branco violento, allucinato e allucinante. Il protagonista, Luca, è imprigionato nella sua realtà, fatta di una ragazza che non ama, un padre che odia e una madre fragile, come lui vittima della vita (una eccezionale Loretta Goggi). Forse per lui l’unica via d’uscita è il rapporto con il fratello della sua ragazza, da cui sembra ricevere nuova linfa. Poi ci sono Francesco, un giovane e semipsicotico padre di famiglia, Laura, una morbosa Lolita ossessionata dalla sua bambola, Emiliano, che lavora all’obitorio, Monica, giovane straniera mantenuta da un anziano signore, e Sandro, figlio di un famoso personaggio televisivo: un crudele neonazista, un esaltato dalla chioma rosso fuoco.
All’inizio del film il gruppo sequestra un uomo. Lo portano nel casermone abbandonato dove Luca passa le sue giornate e si apprestano a seviziarlo. Da qui in poi, continui flashback e anticipazioni faranno luce sulle vite dei ragazzi e sugli eventi che li hanno portati fino a lì. E su ciò che li aspetta.

Gas è un film eccessivo sotto tutti i punti di vista. Non è un film realistico, ma piuttosto cerca di creare un “effetto di realtà” attraverso una cronaca drogata e delirante di un viaggio al termine della notte. Melchionna non punta sulla verosimiglianza o sulla credibilità della sua storia, pur avendo comunque cura di questi aspetti. Si occupa piuttosto di trasmettere allo spettatore quello sterminato disagio che invade Luca e gli altri protagonisti, descrivere la loro visione distorta di una realtà deflagrata. Senza nessun punto di riferimento.

E in tutto questo lo spettatore è impotente. A un certo punto del film Luca stupra la sua ragazza. Noi vediamo la scena attraverso il lunotto posteriore della macchina. Passando per quello schermo, la visione non è in alcun modo attutita. Essa resta, come sempre nel film, senza difese e senza filtri. Ci troviamo prigionieri, come i ragazzi del film, di una realtà inaccettabile. E non abbiamo scelta, come loro.
I personaggi non sono mai affascinanti o divertenti, Gas non è Trainspotting. Sono tutti oberati dal carico di quella miseria che si portano addosso, un peso ottundente che li schiaccia sempre di più.
Il loro è un lungo delirio, e sono volgari, crudeli. Non si può entrare nella loro testa, non si giustifica il loro comportamento con qualche spicciola analisi sociologica. E’ come se l’odio insensato che li brucia da dentro fosse troppo rumoroso, un urlo inascoltabile. Proprio qui allora, forse Gas esprime meglio il suo capitale d’inquietudine. Il film nega ogni idea di riscatto. Ogni prospettiva di salvezza. Nessuno uscirà vivo di qui.
Solo in Luca quella sofferenza interiore si profila come contrasto tra Bene e Male, quando si confronta con l’amore per Riccardo. Anche questa passione genera uno scontro interiore: Luca la rifiuta, la vive con un rancore che non riesce a far esplodere né sa allentare. In questi contrasti efferati che vive incessantemente, il suo si consuma, dilaniato tra l’incapacità d’esprimere il proprio carico di dolore e la consacrazione all’autoannientamento.
E proprio per questa sua complessità, tocca a lui la descrizione, insostenibile e tenera, dell’inferno che gli si contorce dentro: “E’ il tempo che non scorre. Vedo tutto ovattato. Non sento niente. Da sempre.”

Dove porta tutto questo? Tutta questa tensione trova uno sfogo?
Di nuovo, il film sceglie il linguaggio dell’eccesso. Dopo una svolta inaspettata (ma tutto il film ha un’efficacissima struttura narrativa), la storia nel finale assume i toni della tragedia greca. Affiora il tema della vendetta, si delinea l’ipotesi di uno scioglimento che sia una soluzione. E arriva, sotto forma di un orgasmo nero che non significa espiazione né liberazione.
La morte stessa, più volte richiamata nell’immagine della bara (e nella figura del disincantato becchino Paolo Villaggio - un custode, un domestico Caronte), non si mostra salvifica né consolatoria. Semplicemente un vuoto inenarrabile, che genera e alimenta la desolata catastrofe della realtà.
Forse nel finale si delinea anche una tenue Speranza, che però non intende assolutamente distogliere lo sguardo dalla realtà, quella di, come dice Melchionna, “un mondo in frantumi, dove noi guardiamo con il protagonista i pezzi di vetro.”

(Gas) Regia: Luciano Melchionna; soggetto: Alexandria La Capria, Luciano Melchionna; sceneggiatura: Alexandria La Capria, Luciano Melchionna; fotografia: Tarek Ben Abdallah (A.I.C.); montaggio: Paola Freddi; musica: Riccardo Regoli, Fabrizio Sciannameo; interpreti: Lorenzo Balducci (Luca), Francesco Venditti (Francesco), Moran Atlas (Monica), Sandro Giordano (Sandro), Massimiliano Caprara (Emiliano), Paola Ranzoni (Laura), Loretta Goggi (Anna), Paolo Villaggio (Renato), Nino Bernardini (Vittorio), Alexandria La Capria (Ludovica), Giorgio Santangelo (Riccardo), Lina Bernardi (Littoria), Tecla Silvestrini (Speranza); produzione: Massimo Ferrero; distribuzione: Sharada; origine: Italia, 2005; durata: 100’;


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