Grindhouse - A Prova di Morte
L’attesa è terminata ieri in una sala gremita in ogni settore, scalini compresi. Il Festival era tutto o quasi per Quentin Tarantino e per la prima proiezione stampa del suo ultimo lavoro. Oggi in programma conferenza stampa con il cast al completo e presentazione ufficiale al pubblico che già dalle prime ore si affolla davanti l’interminabile tappeto rosso nella speranza, piuttosto vana, di strappare un invito per quella che per nome e carisma è una delle novità più succulente proposte quest’anno dalla competizione del Festival.
Prima di arrivare al film vero e proprio, giusto ricordare che Death Proof (in uscita a Giugno) insieme a Planet Terror di Robert Rodriguez (previsto nelle sale italiane per settembre) faceva parte di un progetto più ampio chiamato Grindhouse. I due diversi episodi dovevano costituire un’opera unica, dunque, inframmezzata da finti trailer la cui regia era stata curata dai fidati amici del duo (basti citare Rob Zombie). Dopo il flop, non proprio incoraggiante, conseguito al botteghino americano (tre settimane di programmazione e meno di venti milioni di dollari incassati) i due produttori, i fratelli Weinstein, memori del successo dell’operazione già fatta per i due volumi di Kill Bill, e confidando proprio su benevolo atteggiamento del mercato europeo, hanno deciso di dividere quello che il progetto artistico aveva concepito come prodotto unitario, realizzando due diversi film piuttosto che due episodi di un’unica grande opera. Niente di cui stupirsi davanti l’impellenza di recuperare i fondi, e non sono pochi, profusi per la produzione.
Tarantino dunque, quando Cannes era già facilmente avvistabile all’orizzonte, ha dovuto riprendere in mano il materiale scartato e rimontare il film così da dargli una qualche compiutezza e una durata accettabile. Abbiamo già giustificato economicamente l’operazione, ma è possibile giudicarla ugualmente azzeccata dal punto di vista cinematografico? A giudicare dal risultato, la risposta è no. Intendiamoci, Tarantino sa usare bene la macchina da presa e, checchè ne dicano i suoi detrattori, il suo talento si estende oltre quella passione per i b-movies (che ha fatto la sua fortuna, ma che ha anche giovato a film totalmente dimenticati, a torto o ragione, causando quell’inondazione di titoli sul mercato dell’home video ancora lontana dall’esaurirsi) o per il citazionismo in genere. Oltre che per la magnifica costruzione visiva, i suoi lavori migliori colpiscono per la complessità della struttura narrativa e per quel modo unico di evolversi in immagini.
In questo caso, però, il giochino non riesce sino in fondo. A metà tra lo splatter ed il classico film d’inseguimento, Death Proof si divide in due parti. Le mandibole spappolate, le gambe che improvvisamente si staccano dal corpo in un sanguinario volo autostradale o, ancora, i volti travolti e deformati da grossi pneumatici non possono che divertire, inseriti in un chiaro discorso di genere, e conditi e supportati da quell’ironia che resta uno di pregi migliori del regista, ma la prima parte, escludendo gli ultimi dieci minuti, è francamente piuttosto noiosa.
Non mancano, e non potrebbe essere altrimenti, dialoghi sarcastici, battute fulminee, o tipiche inquadrature in pieno stile tarantiniano. L’invecchiamento della pellicola, poi, con una fotografia, di cui per la prima volta assume la direzione, pienamente in stile anni ‘70 (la presenza degli aloni nelle sequenze di inseguimento, sicuramente le migliori, sono diretta progenie di quel cinema) lega personaggi, luoghi, azioni rendendo il tutto fortemente caratterizzato da un’aria retrò che il regista ha sempre mostrato d’amare. Quello che non funziona è il ritmo. Pur dovendo considerare che il film è molto diverso dai precedenti sia visivamente che per diretta evoluzione della narrazione, da subito si ha l’impressione che lo sforzo, sostenuto dopo la forzata separazione dal gemello Rodriguez, sia stato troppo ampio ed invasivo per non intaccare la qualità stessa della pellicola.
La seconda parte, invece, si distacca dalla prima proprio per godibilità oltre che per uno stile che cambia registro adattandosi ad uno scenario non più notturno ma, al contrario, bagnato da un sole quantomai ardente. La vicenda è la medesima ovvero quattro ragazze alle prese con un automobilista fuori di testa (un Kurt Russel fantastico nell’ammiccare direttamente in camera), ma qui il ritmo comincia da innalzarsi, e Tarantino regala splendide sequenze d’inseguimento con le macchine che compiono evoluzioni a ripetizione. Ma anche senza considerare la superiore velocità, è tutto l’episodio che sembra essere meglio costruito con delle trovate (il telefonino che suona al ritmo della colonna sonora di Kill Bill tanto per dirne una) davvero gustose.
Memori di Pulp Fiction, Reservoir Dogs e, perché no, anche Kill Bill, questa volta c’è qualche motivato sbadiglio di troppo. Alla prossima.
(Death Proof); Regia, soggetto, sceneggiatura e fotografia: Quentin Tarantino; montaggio: Sally Menke; interpreti: Kurt Russell (Stuntman Mike), Sydney Tamia Poitier (Jungle julia), Vanessa Ferlito (Arlene), Rosario Dawson (Abernathy), Zoe Bell (Zoe); produzione: Dimension Film, Troublemaker Studios; distribuzione: Medusa; origine: USA 2007; durata: 127’