IL VENTO CHE ACCAREZZA L’ERBA

È sincera l’emozione nell’accostarsi al nuovo lavoro di Ken Loach. The Wind that Shakes the Barley (t.i. Il Vento che Accarezza l’Erba), palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, è opera di grande valore. Difficile non rimanere affascinati dal linguaggio di questo grande cineasta, dalla sua capacità di legare lo sviluppo narrativo alle immagini, dal coraggio e dall’abilità nel fare un cinema politico ma in cui la politica non degenera mai in un qualunquismo in grado di cannibalizzare il senso ultimo del racconto cinematografico. Quello di Loach è, certo, un cinema duro, verso cui si è tentati, a volte, di distogliere lo sguardo, di escludere quella parte di paradigma visuale che risulta troppo forte, incisivo, scevro di qualsiasi attenuante e, per questo, così incredibilmente vicino alla realtà, ma che mai si discosta da quell’onestà intellettuale che è la ragione costituente della sua poetica.
Sono passati sedici anni da Hidden Agenda (t.i.-L’Agenda Nascosta) e Loach, per raccontarci le radici di quell’odio, volge la sua macchina da presa fino al biennio 1920-1922 mostrando come la guerra d’indipendenza irlandese muti in guerra civile, spezzando e corrompendo ideali di giustizia e legami di sangue.
Nulla ci viene risparmiato. Il film è crudo, costruito su una ricerca di libertà che necessariamente deve fare i conti con ciò che da sempre ne è la negazione: lo scontro armato. I personaggi, ben supportati da una prova assai convincente degli attori, vivono ribellioni, speranze e disillusioni per poi arrivare verso l’amara constatazione di un compromesso che si trascina il germe della sconfitta, morale ancora prima che politica. Ciò che viene perso immediatamente, infatti, è l’intento comune, il sentire unanime di una nazione. I due fratelli, nella cui storia è condensato il senso ultimo del film, diventano l’emblema di una forbice ideologica destinata a spezzare quel filo di speranza in grado di animare gli intenti rivoluzionari.
Ecco allora che la divisione dei due protagonisti diviene metafora di una lacerazione più profonda che investe il cuore stesso dell’Irlanda. Non ci è data possibilità di scelta. In qualità di spettatori non abbiamo privilegi che ci possano mettere in condizione di scegliere da che lato parteggiare. Non c’è giudizio morale da parte di Loach, proprio perché è la guerra stessa ad annullare ogni forma di eticità e quella distinzione manichea, tanto di moda oggi, tra bene e male, innocenti e colpevoli.
Nella struggente dolcezza di un canto irlandese, nei lunghi momenti di dialogo e di partecipazione ideologica ritratti con uno stile che nulla di artificioso vuole aggiungere ma che, al contempo, mostra prepotentemente la sua presenza, nell’uso di una violenza privata della sua estetica e rappresentata solo nella sua fisicità, in un gesto che riconduce con immediatezza alla materia umana, al suo essere carne e sangue, il regista scrive una pagina che riporta alla luce una storia che, come altre, viene troppo spesso dimenticata, continuando così a mostrare quanto sia facile e frequente il tentativo di sotterrare quei periodi, purtroppo non così sporadici, in cui follia, opportunismo, profitto diventano i reali autori delle azioni umane.
È celato un secolo di storia nel film di Loach, che arriva sino ai giorni nostri, ricordando ancora una volta e ricollegandosi a quella guerra inutile, priva di fondamento ma ricca di ipocrisie, che dopo avere già condotto alla spaccatura di una nazione, porta, oggi, con sé il problema della sua risoluzione e soprattutto l’interrogativo su quanto giusto sia uscirne dopo esserne stati, in modo assolutamente attivo, complici.
(The Wind that Shakes the Barley ) Regia: Ken Loach; soggetto e sceneggiatura: Paul Laverty; fotografia: Barry Ackroyd; montaggio: Jonathan Morris; musica: George Fenton; interpreti: Cillian Murphy (Damien), Padraic Delaney (Teddy), Liam Cunningham (Dan), Orla Fitzgerald (Sinead); produzione: Sixteen Films, Pathè; distribuzione: Bim; origine: UK 2006; durata: 124’;
