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Quel placido e discreto fascino del bandito Vallanzasca

Pubblicato il 20 gennaio 2011 da Marco Di Cesare


Quel placido e discreto fascino del bandito Vallanzasca

Ogni cosa, ogni fatto, ogni evento è questione di stile, di forma: nella vita come nel cinema. E ciò che più risalta all’occhio, di fronte all’ultima pellicola di Michele Placido, è la consapevolezza di come Vallanzasca – Gli angeli del male sia stato un’occasione persa, per un certo tipo di cinema italiano: quello grande – anzi, ’grosso’ – quello che, per numeri, budget e anche tematiche affrontate, ha una maggiore possibilità di raggiungere un vasto pubblico. Laddove proprio questo progetto sulla Banda della Comasina sarebbe potuto essere un’occasione per poter vedere qualcosa di diverso. Ma ’diverso’ non perché appartenente ai cosiddetti film ’di genere’, bensì perché coraggioso e senza timori, capace piuttosto di pensare in grande, di rischiare e lasciare un segno, di graffiare senza giungere a facili compromessi.

Innanzitutto alla base del racconto vi sono le gesta di René il bandito, in quegli anni Settanta che furono di piombo non solo a causa della violenza di Stato, del terrorismo, dei servizi deviati e dei golpi più o meno espliciti, o del salto di qualità della malavita organizzata; un periodo, piuttosto, che risuona come simbolo di una violenza generalizzata che aveva alzato la sua testa d’Idra, emblema di un’epoca che aveva portato alla ribalta la devastazione dell’innocenza di un Paese che probabilmente innocente non lo era mai stato.
Già in nuce, quindi, qualcosa di abbacinante.
E Vallanzasca è l’ultima parte di una trilogia che ha visto Placido analizzare gli anni del ’68 e immediati dintorni attraverso Il grande sogno incastonato tra la violenza - invero alquanto addomesticata - del ’C’era una volta a Roma’ la Banda della Magliana (Romanzo criminale, ovviamente) e questo ritratto di una Milano non ancora da bere, ma solamente ’Calibro 9’, senza Amaro Ramazzotti, ma con fiumi di J&B. Per cui da una parte l’utopia di una generazione che lottava per un futuro migliore; dall’altra i desideri di alcuni loro coetanei che abbracciarono il crimine per provare l’ebbrezza del potere, dei soldi, del vivere pericoloso, oppure, magari, perché, per questi ultimi si trattava dell’unica cosa che potessero fare delle loro vite. In ogni caso – che tutti quei ragazzi fossero o no dalla parte della ragione – in questa sua trilogia sempre di fuorilegge Placido ci ha parlato, tracciando le linee di un quadro raffigurante una sorta di ribellismo che fa molto Seventies.
Quello che, però, a nostro personalissimo parere manca in tutte e tre le pellicole è la capacità di far compenetrare - se possibile per reciproca osmosi - le vicende vissute dai protagonisti con lo sfondo che li accomuna, non potendo così queste opere contare su di una profondità di campo e, perciò, di visione: e i personaggi più che agire, sono agiti; più che essere vivi nel qui e ora del racconto audiovisivo, divengono reperti del passato, entità quasi astratte, fantasmi. Laddove sarebbe stato lecito attendersi qualcosa di più da un autore che quegli anni li ha vissuti e sentiti in prima persona.

Tanto che, tornando al caso specifico di Vallanzasca, più che la ricostruzione o la reinvenzione di una altrui esistenza, questo film appare come il tributo a un immaginario cui i media hanno contribuito in maniera preponderante; media che, comunque, sono stati fin da subito abilmente utilizzati dallo scaltro, ironico e intelligente René. Un immaginario da cui il regista Placido per nulla ha voluto mantenere una giusta distanza di visione o, meglio, un ampio sguardo di insieme. Per cui sembra assumere contorni un po’ ironici l’inquadratura che segue all’arresto a Roma nel 1977 (quello del celebre discorso dal balconcino), in cui si mostrano i titoli di telegiornali del tempo, più le prime pagine dei quotidiani, tra cui uno che annuncia la preparazione di un film sulle gesta del malvivente, con la parte da protagonista contesa tra Alain Delon e lo stesso Michele Placido (cui Fernando Di Leo aveva proposto un progetto in competizione coi francesi). E un giovane Placido, in un altro titolo, dichiara che mostrerà il vero volto del criminale (raffigurato con i lineamenti di Kim Rossi Stuart, in un piccolo tripudio di incontro di verità e finzione).
Chissà cosa sarebbe potuto venirne fuori allora, così a ridosso di quanto accaduto. Comunque entrambi i progetti vennero abortiti.
Tornando al presente, qui, nel film del Placido regista trent’anni dopo, alla volontà di mostrare il lato nascosto del bandito, descritto non come un semplice mostro ma – giustamente - come una persona, si accompagna però un depotenziamento di tutto il resto del film. Giacché da una parte si sta addosso a un eccelso Kim Rossi Stuart e dall’altra si lascia libero Filippo Timi di esagerare e di cadere nella maniera. Mentre le forze dell’ordine vengono il più delle volte descritte un po’ troppo canaglie, andando contro anche certe testimonianze. Polizia che incastra un sospettato tirando fuori una prova da chissà dove; agenti talmente rancorosi dopo l’uccisione di un loro collega da infastidire ripetutamente e quasi minacciare gli anziani e innocenti genitori del bandito, causando le giuste ’rimostranze’ di quest’ultimo; carabinieri talmente inesperti e sciocchi da non accorgersi della presenza di un oblò in una cabina (mentre, come affermato da Vallanzasca stesso, l’avevano notato, ma lo avevano considerato troppo piccolo). Quando poi, in fondo, non si vede Vallanzasca uccidere alcuno, se si esclude il via che dà a una sparatoria contro il seguito di Francis Turatello. Mentre quella contro la polizia al casello di Dalmine viene restituita attraverso campi e controcampi filtrati in maniera che crei una certa confusione, con in sottofondo pure un certo afflato lirico; inoltre, alla sua conclusione, l’accento è posto esclusivamente, in un modo spudoratamente toccante, sulle pene patite dal bandito a causa della morte di un compagno. Prima ancora vi era stato lo scontro a fuoco di Piazza Vetra, in cui un poliziotto, ferito, aveva ucciso con un colpo alla testa un bandito, anche lui ferito, ma ormai inoffensivo. O, per ultimo, l’omicidio del personaggio interpretato da Timi, ossia Enzo, che nel film non viene finito da Vallanzasca, nonostante Enzo sia in (gran) parte ispirato a Massimo Loi, il quale più volte aveva tradito la fiducia che il suo capo riponeva in lui. Questi elementi, perciò, concorrono a fornire un profilo meno ispido del protagonista: il suo atteggiamento morale nell’amoralità, il suo codice di comportamento, seppure possa avere avuto fondatezza nella realtà, qui viene restituito in maniera fin troppo didascalica.

Ovviamente si può controbattere che vi è ancora, dopo tanti anni, una certa confusione sulle gesta e le colpe specifiche di Vallanzasca. O, ancora, che il film adotterebbe il punto di vista del bandito per mostrarne la psiche dal di dentro (benché la forma utilizzata non sembrerebbe autorizzare un’interpretazione così stretta). Rimane, però, questa scelta drammaturgicamente infelice di privare il film di qualsiasi sostegno che non sia il bel René, lasciandolo praticamente senza antagonisti e senza mostrare una sua reale discesa agli inferi che potrebbe sottolineare una sorta di lotta interiore. Poiché tutto è dato, non vi è un vero sviluppo, quando poi l’infanzia del bandito viene proposta con degli inserti alquanto banali (come accadeva nel film sulla Banda della Magliana). Allo stesso modo non basta una dichiarazione - in un film che di dichiarazioni, soprattutto di intenti, è pieno - che attesti l’ontologia di criminale di una persona che è quello che è, per poter giustificare tutto il resto del film. Tuttavia, perlomeno, si sentono il dolore fisico e la costrizione psicologica che sviliscono e indeboliscono il protagonista.
Comunque generalmente la regia non è che aiuti poi molto. Non che non ci siano varie scene e situazioni interessanti (quasi solo quelle più intimiste, però, come il colloquio di Vallanzasca in carcere con Consuelo-Valeria Solarino che confessa di volere una famiglia normale, dopo anni, e il mancato incontro una volta fuggito di prigione; l’arresto a Roma; la scena in treno con le due adolescenti; l’addio ai genitori; o quando lui apprende della morte di Turatello), ma comunque quello che manca è il tessuto connettivo per un film che si prefiggerebbe di mostrarci la tragedia e l’autodistruzione di una persona di cui non si riesce a scorgere il tanto decantato lato oscuro.
Sotto questo punto di vista il pensiero, seppure riferendosi a un altro media, può ben correre a certi, recenti, esempi di grande televisione: ovviamente la serie Romanzo criminale, che mostrava la nascita e la fine di una fratellanza di vere belve col mitra che incutevano rispetto e timore, poiché descritte con equilibrio all’interno di un quadro ben delineato; oppure Sons of Anarchy, ispiratosi agli Hell’s Angels per raccontare una storia che rivisita l’Amleto di Shakespeare; o, ancora, l’australiano Underbelly che si rifà alle vite di criminali realmente esistiti. Tutti esempi, questi, di una durezza e di una violenza sconcertanti, capaci di svelare gli orrori che albergano nell’animo umano, senza fare sconti ai personaggi ritratti, realizzando letture a-morali sull’a-moralità, peraltro in una maniera mai stanca o fine a se stessa. Certamente la televisione può sviluppare i copioni e il progetto totale di una serie in maniera totalmente differente da quello che il cinema può fare con un film; e, di certo, le gesta di un bandito milanese ci toccano molto più da vicino di quanto potrebbe accadere di fronte a dei suoi colleghi provenienti dagli antipodi. Però è pur vero che quello che conta è l’organizzazione interna del racconto, laddove è la forma a operare di concerto con il contenuto che si vuol proporre. Per cui, alla fin fine, in Vallanzasca c’è una forte impronta di conformismo cinematografico, il timore di spingersi oltre, di andare al di là del monotematismo: perciò, sotto una superficie fintamente arrabbiata, al di sotto di qualcosa che taluni potrebbero considerare esplosivo, riposano invece delle polveri alquanto bagnate.


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