RED FAMILY
Direttamente dal Tokyo International Film festival, arriva in concorso un film prodotto e scritto da Kim Ki Duk e diretto da Lee Yu-Hyoung. La mano del grande regista coreano si avverte nella costruzione di un ritmo narrativo in grado di gestire la comunione tra tipici elementi cari al grottesco e evoluzioni certamente più drammatiche e dal forte impatto emotivo.
Red Family porta sullo schermo la contrapposizione tra due nuclei familiari speculari (padre, madre, figlio/a, nonno/a) residenti in un piccolo paesino della Corea del Sud prossimo al confine con la zona nord. Contrapposizione perché una famiglia sembra sconvolta da tensioni interne insanabili, con relazioni sempre prossime allo scioglimento, e la seconda, al contrario, pare vivere secondo le più comuni e armoniose dinamiche parentali. Mai una voce fuori posto, il sorriso sempre pronto all’uso e una gentilezza, nei modi e nei gesti, fin troppo ostentata. La prima è una vera famiglia, la seconda nient’altro che un satellite spia della Corea del Nord, pronta a dare la caccia a eventuali disertori e a studiare i costumi di vita della capitalista Corea del Sud.
Il film racchiude, e lo fa con una certa eleganza, una chiara nota politica - insistendo sul sistema dittatoriale del nord e sulla rete di minacce che costringono comuni cittadini ad arruolarsi per salvaguardare la vita dei parenti in patria - ma vira poi in maniera decisa e convincente verso una riflessione più ampia che comprende le idee di autenticità e di finzione, compiendo - ed è tipico della scrittura di Kim Ki-Duk - una profonda analisi di ogni personaggio presente sullo schermo. Così si materializzano fantasmi, repressioni, desideri e, soprattutto, una sete lacerante di normalità.
_ Saremmo lontani dalla cinematografia coreana se tutto questo non vivesse della e nella continua ricerca di equilibrio tra ironia e drammaticità. E allora fanno sorridere inevitabili eccessi e fraintendimenti ma, gli stessi, lasciano presto spazio a riflessioni più intime e a frammenti che strizzano l’occhio al cruento.
L’aspetto politico è gestito sottolineando come le ideologie, cieche e prive di confronto, siano terreno fertile per la costruzione di barriere sociali e, soprattutto in una sequenza in cui il dialogo tra le due famiglie al completo si fa fitto, di stereotipi e luoghi comuni. Il film funziona ancora meglio quando lo sguardo, inizialmente d’insieme, va facendosi più analitico, mettendo a nudo caratteri e pensieri e andando a sottolineare, con l’intercessione di una inevitabile retorica, come realtà e finzione siano facce diverse di una medesima medaglia. L’epilogo, oltre la sorpresa dell’ormai famosa Arirang - motivo che Kim Ki-Duk canta non appena possibile - regala, con la consueta e preziosa cura formale del cinema orientale, una nota agrodolce restando però ben lontano da quella ricerca del lieto fine che avrebbe stonato con la costruzione narrativa. Buon film.
(Bulg-eun Gajog) Regia: Lee Juve-Hyoung; sceneggiatura: Kim Ki-Duk; fotografia: Lee Chun-Hee; montaggio: Kim Ki-Duk, Kim Heuk; interpreti: Kim Yumi (Baek Seung-hae), Jung Woo (Kim Jae-hong), Son Byeong-ho (Cho Myung-sik), Park So-young (Oh Min-ji;produzione: Kim Ki-Duk Film Production; origine: Corea del Sud 2013; durata: 99’.