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Roma 2008 - L’Heure d’été - L’altro cinema

Pubblicato il 26 ottobre 2008 da Fabiana Proietti


Roma 2008 - L'Heure d'été - L'altro cinema

Un ritorno alle origini. Ad origini mai vissute ma parte di un background culturale a volte contestato, rinnegato, con cui era però forse giunto il momento di confrontarsi, di riuscire a dialogare arrivando a una rielaborazione personale e più pacificata della propria ingombrante eredità artistica.
Si ha l’impressione che L’Heure d’été sia una pietra importante nella bellissima e sfaccettata filmografia di Olivier Assayas. Dopo l’esplorazione del mondo liminale e globalizzato, composto di asettici non-luoghi e di metropoli iper tecnologiche, avvenuta con lo sperimentale Demonlover e il penultimo Boarding Gate, mélo d’azione innestato su luoghi e corpi ormai privi d’identità, di sentimenti ed emozioni scambiati e venduti come le merci traghettate da Oriente a Occidente, questo ritorno a casa, per di più ad un milieu intellettuale borghese, risulta certamente spiazzante.
Scompare quell’epidermica aderenza ai corpi d’attore che la macchina da presa seguiva, assaltava, trasferendo sullo schermo la disperazione, il mal de vivre, l’insofferenza e la ribellione di una meravigliosa galleria di personaggi ‘contro’. In L’Heure d’été, la macchina da presa è invece sempre alla “giusta distanza”: non strattona i personaggi ma li osserva con uno spirito insolitamente classico per l’autore, che pare quindi riconciliarsi con una certa tradizione cinematografica e letteraria francese.
La pellicola di Assayas ha infatti il respiro dei grandi cicli romanzeschi del tardo ottocento, il piacere di una divagazione affabulatoria la cui dilatazione risponde al tempo interiorizzato della memoria, rievocando un passato felice che resta inscritto negli oggetti, nelle cose, accarezzate dalla macchina da presa e sfogliate come pagine di un album fotografico.
Ed è proprio grazie al meraviglioso utilizzo fatto del décor che il film riesce ad andare oltre la patina di dramma familiare borghese, anche verboso e stilisticamente classico, realizzando un discorso teoricamente fecondo, raggiungendo un punto d’incontro tra due delle più importanti tendenze intellettuali e artistiche della cultura francese: il romanzo proustiano a cavallo tra ottocento e novecento e le sperimentazioni del parti pris des choses di Ponge.
Il film oscilla continuamente tra le due impostazioni, accostando alla puntigliosa catalogazione degli oggetti – quella degli esperti che vengono a profanare la vecchia casa di campagna – una rievocazione densa di malinconia per un passato irrimediabilmente perduto di cui gli oggetti sono rimasti i soli testimoni. L’Heure d’été si configura così come una madeleine continua, in cui il mobilio pregiato e la collezione artistica del prozio Paul Berthier costituiscono l’ultimo legame tra i membri di una famiglia la cui unità è minacciata proprio da quel mondo globalizzato che Assayas aveva tratteggiato nelle sue opere precedenti.
Ed ecco che la distanza incolmabile con questi lavori pare ridursi. Come se, dopo aver guardato da vicino quel mondo nei suoi tratti distintivi, ora lo sguardo dell’autore si soffermasse sugli effetti di un simile cambiamento. Sulle macerie emotive del vecchio continente, disgregato e culturalmente minacciato dal Nuovo Oriente.
Bisogna allora “chercher l’auteur”, scovare l’autore, rintracciarne la poetica e lo stile in una pellicola che pare “mascherata” da classico film francese. Che riecheggia autori come Sautet – quanto le riprese dei bambini intenti a giocare a nascondino ricordano gli analoghi passatempi che si svolgevano nella casa di campagna del mentore di Daniel Auteil in Un cuore in inverno? – per poi ritrovare nel finale, con i due adolescenti in fuga nei loro ricordi d’infanzia, la sostanziale inquietudine che muoveva i protagonisti di L’eau froide.
Paradossalmente, il lato più affascinante del film è questo suo porsi come un diamante grezzo, una pietra preziosa da cui bisogna togliere la polvere dei dialoghi, quell’air de famille falsamente rassicurante, perché i momenti lirici possano apparire in tutta la loro fulgida bellezza.
Uno di questi, la sequenza al Musée D’Orsay dove la pregiata scrivania di Hélène viene consegnata allo sguardo distratto e indifferente dei turisti, attiva immediatamente l’analogia con l’arte di massa-cinema. Restiamo con un dubbio (per altro già oggetto di discussione della tavolata di Un cuore in inverno): se sia sempre giusto condividere la bellezza, l’arte, con una folla spesso cieca. Lo scrittoio così amato dall’anziana Hélène viene violato da sguardi affrettati incapaci di vedere. Allora, questa perdita dell’aura, questa democratizzazione dell’arte è davvero sempre giusta, è davvero sempre un bene?
A giudicare dal comportamento irrispettoso avuto da una parte del pubblico in sala, ansioso di mettere fine al – tra l’altro bellissimo – incontro con l’autore, che precedeva il film, confessiamo di avere più di un dubbio in proposito…


CAST & CREDITS

(L’heure d’été) Regia e sceneggiatura: Olivier Assayas; fotografia: Eric Gautier AFC; montaggio: Luc Barnier; musiche: Nicolas Cantin, Olivier Goinard; interpreti: Edith Scola (Hélène), Charles Berling (Fréderic) Juliette Binoche (Adrienne) Jéremie Renier (Jéremie) Alice de Lencquesaing (Sylvie);produzione: Martin Karmitz, Nathanael Karmitz, Charles Gillibert; distribuzione: MK2; origine: Francia 2008; durata: 105’; web info: sito ufficiale


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