RomaFictionFest 2010 - Parenthood
Parenthood è una serie televisiva americana prodotta dalla NBC e trasmessa negli Stati Uniti nella seconda mid-season di quest’anno. Un periodo, questo, strano per una serie televisiva, ma motivato dal tumore al seno che aveva colpito l’attrice Maura Tierney (E.R. - Medici in prima linea), sostituita, alla fine, da Lauren Graham (Una mamma per amica).
La serie altro non è che la trasposizione televisiva dell’omonimo film di Ron Howard Parenti amici e tanti guai (Parenthood in originale) e racconta le vicende della famiglia Braverman. La storia ha inizio con il ritorno a casa della madre single Sarah (Lauren Graham) e dei suoi due figli dopo la separazione dal compagno con cui ha convissuto per diversi anni. Ad attenderli i suoi genitori Zeek (Craig T. Nelson) e Camille (Bonnie Bedelia), i fratelli Adam (Peter Krause ) e Crosby (Dax Shepard), la sorella Julia (Erika Christensen) e i loro consorti: Kristina (Monica Potter), moglie di Adam, e Joel (Sam Jaeger), il marito di Julia. Di puntata in puntata i Braverman affronteranno le loro beghe e le loro gioie quotidiane con una complicità e una solidarietà reciproca che li aiuterà ad andare avanti.
Pur appartenendo alla lunga tradizione dei family-shows della televisione made in USA, Parenthood sa sviluppare gli elementi di questo tipico genere in forme narrative inusuali e profondamente innovative. In questo modo luoghi comuni del genere, come l’arrivo in città di un protagonista della storia, la famiglia come centro di sviluppo della vicenda e le problematiche comuni della vita quotidiana si sposano ad una scrittura fluida e leggera e ad uno sviluppo realistico dei personaggi, all’insegna dell’incongruenza e dell’imperfezione (ossia gli elementi più reali e convincenti della condotta umana).
Se infatti il modello comportamentale più interessante delle famiglie televisive negli ultimi anni era concentrato nella creazione di modelli anticonvenzionali (come, per esempio, in Californication, in Arrested Development e in Modern Family), va altresì detto che questi modelli (mutuati in fin dei conti da programmi come The Simpsons o Family Guy) erano profondamente falsi o, almeno, non realistici, dato l’eccesso di spettacolarizzazione che li caratterizzava. In Parenthood, invece, ogni fatto, più o meno grave, è sviluppato attraverso un contegno e una dimensione realistica che non siamo abituati a vedere in TV, mentre i personaggi non sono mai assolutamente tagliati in modo netto, portando con sé, al contrario, una sorta di ambiguità comportamentale che è, in fondo, l’unica verità che conosciamo degli uomini. Difatti abbiamo, per fare un esempio, genitori immaturi e avventati, ma mai compulsivi o incoscienti, che provano a fare del loro meglio, senza compiere colpi ad effetto o provocazioni varie (come, d’altronde, immaginiamo accada per la maggiore parte dei genitori).
A tale aspetto si aggiunge congiuntamente una scrittura fluida e delicata, concentrata su una messa in scena dove è presente un sentimentalismo estremo ma mai stucchevole o fuori luogo. La solidarietà affettiva che lega i membri della famiglia non è mai sviluppata sotto un profilo spettacolare, ma sempre all’insegna di quella sincerità che è la vera forza della serie. Forza che, con ogni probabilità, è desunta proprio dal film da cui trae spunto che già conteneva una certa qual leggerezza ed un affetto sincero per i protagonisti che metteva in scena.
Attraverso una regia avvolgente e concentrata i protagonisti sono sempre pedinati e accompagnati da una macchina da presa continuamente mobile che, mediante movimenti articolati e lineari (evidenti sono i dolly), guida lo sguardo dello spettatore verso prospettive insolite e frastornanti. Oltre a questo dobbiamo tenere conto di un grandissimo e convincente cast e di una colonna sonora sofisticata e raffinata, elementi, questi, che sanno regalare una resa dello spettacolo molto emozionante, soprattutto sotto il punto di vista dell’emotività.