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Televisionarietà – Dead Set

Pubblicato il 5 dicembre 2010 da Marco Di Cesare


Televisionarietà – Dead Set

C’è tanta rabbia, oltre che un’estrema violenza, in questa breve e splendida miniserie britannica, che in Italia giunge come un improvviso colpo al cuore e allo stomaco grazie a Mtv (in prima visione il venerdì alle 23.30, dopo True Blood; in replica sabato e lunedì notte). È composta di cinque puntate (la prima di 45 minuti, le altre quattro di soli 25) che due anni fa sono state trasmesse per la prima volta nella madre patria, sul canale a pagamento E4, per cinque giorni consecutivi, programmate per concludersi e andare significativamente a morire nella serata di Halloween.
Sbarcata in Italia quasi in concomitanza con l’interessante The Walking Dead (e, rispetto a questa, molto diversa) di Dead Set era già giunta l’eco in occasione della sua originale messa in onda inglese. Il motivo principale dell’interesse che al tempo aveva suscitato risiedeva principalmente nello spunto iniziale: ossia nell’idea che un’orda di morti viventi si diffondesse in Gran Bretagna, giungendo fino alle soglie della casa del locale Grande Fratello. Per cui nel lavoro scritto dal quasi quarantenne giornalista e critico televisivo Charlie Brooker (del quale si dice essere una firma altamente corrosiva e fustigatrice) è esplicitata la volontà di parlare dei meccanismi che governano certi spettacoli televisivi moderni, nella fattispecie il reality show, un po’ come accadeva nel recente esperimento documentaristico francese Ultima frontiera. Il gioco della morte per quanto concerne i quiz e il sadismo di tanti spettatori. A questo punto non è difficile notare come siano state proprio le due industrie televisive più sviluppate dell’Europa occidentale ad essersi interrogate sull’ontologia dell’odierna tv della crudeltà – oltre che sulla finzione che la sottende - chiamando direttamente in causa il lato più nazionalpopolare di un piccolo schermo mai stato così cattivo maestro, e raggiungendo entrambe elevati risultati estetici.

Tornando al caso specifico di Dead Set, non si può non sottolineare come ci si trovi di fronte a una sconvolgente messa in scena di uno specifico luogo mentale quale l’opera sugli zombi è ormai diventata, inserita in un presente dominato dai mezzi di comunicazione di massa, dove un’adorante marmaglia vede agire idoli innalzati senza alcun particolare motivo, se non quello di un loro essere che coincide con il loro apparire. Al di là della rilettura e del ripensamento di quel tempio che nel romeriano Dawn of the Dead si incarnava in un centro commerciale, capace di richiamare tanti fedeli morti viventi, diviene qui assai interessante il sovrapporsi del topos della casa in quanto rifugio con la Casa del Grande Fratello, una dimora, quest’ultima, che per antonomasia è divenuta il luogo di aperti conflitti tra individui posti in cattività. Vedremo poi tale moderna dorata prigione configurarsi ancor più per quello che è in modo manifesto: ossia l’emblema della non conoscibilità del reale, quel ’di fuori’ che si trova al di là dell’individuo (non riferendoci qui solamente agli inquilini della Casa), facendo esplodere il conflitto tra finzione e realtà, contrasto che soprattutto si trova alla base del pensare e del ripensare qualsiasi linguaggio artistico. Giacché, nella fattispecie, si potrà scorgere la televisione mentre questa guarda se stessa, scrutando la deformità della sua parte più oscura, con l’occhio e l’atto del guardare posti qui come assoluti protagonisti, per uno spietato gioco del tutto intellettuale che ha ammodernato la storia di un intero (sotto)genere, calandolo perfettamente nel nostro presente, in un ’qui e ora’ che viene inondato di una violenza splatter che mai avevamo visto sullo schermo da salotto, spostandone ulteriormente i limiti creativi e di rappresentazione.

Perché i morti viventi di Brooker corrono (diretti da Yann Demange con una mano nervosa che fa da pendant con le macchine più o meno fisse sulla Casa, per la restituzione persistente, aggressiva e incombente tensione), instancabili e furibonde belve assetate di sangue al pari dei rabbiosi malati nei 28 giorni dopo di Danny Boyle, in questo alquanto lontani dalle ’mummie’ romeriane. Per quanto, però, l’inglese Boyle (e, dopo di lui, lo Zack Snyder del remake del Romero de L’alba dei morti viventi), a riguardo di una fisicità più consapevole da parte dei morti viventi (oltre che per la presenza dei militari, seppure ribaltata di significato), si sarà probabilmente ispirato all’Umberto Lenzi dell’Incubo sulla città contaminata (1980) che per la prima volta innestava l’azione più dura e pura in una sorta di zombie-movie (senza qui dimenticarsi, giusto per citarla, della deliziosa commedia horror Il ritorno dei morti viventi di Dan O’Bannon, risalente al 1985). E, comunque, proprio nel film di Lenzi Dead Set sembra avere trovato alcune fonti di ispirazione: l’irrompere dei contaminati in uno studio televisivo dove si esibiscono ballerine in costumi abbastanza succinti, mentre poco prima la stessa emittente aveva impedito a un proprio giornalista di diffondere la verità agli spettatori (con in seguito, lungo il film, alcuni dialoghi – inseriti in maniera tutt’altro che pregevole all’interno della pellicola - che vertevano intorno a un discorso moralistico sulle colpe dell’uomo); inoltre la veloce corsa verso il baratro per un’umanità persa e disperata.
Ma a Brooker evidentemente interessava pure l’aspetto maggiormente satirico, per cui si è affidato anche al cinema ’politico’ (nel senso di presa di posizione da parte dell’individuo, contro la massificazione) del maestro George Romero, riprendendolo in modo intelligente e ironico attraverso alcune, mirate, citazioni che riconducono alla sua ’prima trilogia’.
Nonostante un lato grottesco sia comunque strettamente connaturato alla figura dello zombie, in Dead Set tutto diviene più cupo, con al centro del discorso l’orrore del mondo, laddove la dissacrazione si confonde con un tono che tocca livelli di assoluta e quasi inaspettata tragicità. E dove anche la rappresentazione della volgarità, della trivialità – così come della miseria e della mediocrità di taluni, anzi di molti - raggiunge livelli inauditi: basti pensare al personaggio del produttore dello show, Patrick, miracolosamente rappresentato, però, facendolo camminare lungo il crinale che divide la macchietta dalla figura a tutto tondo. Mentre alcuni attori hanno in passato veramente partecipato al Big Brother (come la presentatrice Davina McCall), mostrando così l’ironia di avere partecipato a uno spettacolo, Dead Set, che ha preso spunto da una realtà che è ispirata a uno spettacolo, per un vorticoso gioco al massacro che si svolge secondo i tempi di una danza macabra, nella quale le figur(in)e cercano di essere considerate in quanto individui, malgrado tutto. Con Kelly, una ragazza, un’umile runner, leader riconosciuta dal gruppo (e, in quanto donna, rappresentante di una minoranza che, malgrado le moderne figure di eroine forti quanto e più degli uomini, nell’ambito zombesco non può non far pensare alla ’scandalosa’ parte ricoperta dal nero Ben nel 1968 de La notte dei morti viventi).
Grazie soprattutto a questa sua ricchezza di senso, difficilmente Dead Set potrà apparire come un prodotto meramente derivativo, poiché riesce a inventare e a re-inventarsi nonostante l’appartenenza a un (sotto)genere ormai ben codificato e sedimentato, un lavoro a piccolo budget che, piuttosto, può essere considerato come un capolavoro, il punto (forse) d’arrivo di un discorso cominciato quarant’anni prima, talmente circoscritto e definitivo che potrebbe non generare alcuna discendenza.
E anche il fatto che la compagnia produttrice di Dead Set, la Zeppotron fondata da Charlie Brooker e da altri, faccia parte del famigerato impero Endemol cui dobbiamo il Big Brother e altri spettacoli di tale stampo (mentre fino a quest’ultim edizione è stata proprio l’E4 a trasmettere le versioni integrali del Grande Fratello), potrebbe non fare altro che acuire il senso di impotenza e di inadeguatezza che comunque si forma nello scarto che intercorre tra la realtà e una sua rappresentazione seppure libera, intelligente e piena di indignazione, per una commistione di grottesco sarcasmo da Inglesi e di tragicità dietro cui si nasconde la consapevolezza della difficoltà o, addirittura, dell’impossibilità di trovare una via di fuga e di essere completamente vivi in un mondo di cadaveri ambulanti.


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