THE BROTHERSOME MAN
Una trama in cui è difficile rintracciare una qualche sequenza logica di causa ed effetto. Un principio che non ci è dato di conoscere ed un epilogo che nulla risolve ma che, al contrario, alimenta dubbi ed interrogativi. Eppure, o forse proprio per questo, The Brothersome Man intriga e diverte. Jens Lien, il regista, realizza un film di novanta minuti assolutamente da gustare per l’originalità di certe trovate della sceneggiatura e per uno stile di rappresentazione privo di orpelli e di ridondanze ma assai efficace ed incisivo. Accostabile, ma non troppo, a The Truman Show per suggestioni e per una scenografia che ricorda lo spazio urbano posticcio del bel film di Peter Weir, la pellicola opera, per bocca del suo realizzatore, una sottile critica della realtà contemporanea norvegese, dove i problemi sembrano essere volutamente messi da parte, concentrandosi su di una narrazione in cui uno humor piuttosto nero diventa assoluto protagonista.
Il personaggio principale, interpretato in modo stralunato e quasi macchiettistico da Trond Fausa Aurvag, si muove all’interno di una città i cui abitanti conducono una vita priva di turbamenti, insensibili davanti ai suicidi, imperturbabili rispetto ai sentimenti ma pronti a difendere quell’ordine, scevro di passione ed emotività, che sembra di gran lunga potere garantire un’esistenza al riparo da qualsiasi dolore. Siamo condotti, durante lo scorrere del film, in una proiezione di quella realtà che spesso ci invita a volgere lo sguardo da un’altra parte pur di evitare che la scintilla della curiosità, o della semplice umanità, sconvolga i labili equilibri di un sentire sereno che, però, finisce con il risultare una maschera abbastanza ipocrita.
Con una regia essenziale ma ben strutturata, viene naturale seguire il passare dei giorni all’interno della vita di Andreas, l’unico, insieme ad Hugo, ad interrogarsi sull’assenza, pressoché totale, di reazioni da parte di chi gli sta intorno. In questo diffuso universo fatto di apatia e atarassia, infatti, il sesso non è altro che un ritmico movimento di corpi, sempre uguale e drammaticamente privo di piacere, la morte non è vista come turbativa, semplicemente perché non è quasi contemplata (e poco importa se ci si ritrova a camminare davanti al cadavere di un uomo dilaniato dalle inferriate di un cancello, dopo essersi buttato dalla finestra), il sangue ed il dolore sono allontanati come intrusi nella vita di ogni abitante e tutto appare “nice” perché carino è il massimo grado che si può concedere a una qualsiasi forma di coinvolgimento emotivo.
_Il film, dunque, distende e convince e, pur non essendo del tutto giusto affidargli un messaggio polemico troppo pesante, non lesina una critica ben condotta e crudelmente sagace alla volontà di molti di chiudere gli occhi davanti ai mille impedimenti quotidiani. Solo la fine appare esaurirsi troppo in fretta, ma più che di errore si tratta di una scelta registica, pur discutibile, di non volere approfondire troppo e di non volere contestualizzare in modo chiaro quel senso di sospensione spaziale e temporale di cui il film è intriso.
_I novanta minuti passano in fretta lasciando il sapore ironico di un divertimento reale, frutto di situazioni magari un tantino ripetitive ma che ben si adattano e risolvono all’interno del corpus del film.