VENEZIA 63: EJFORIJA (EUPHORIA)

Un sidecar fatto partire a fatica. Su di esso un uomo si lancia contro il vento, lungo una piccola strada che attraversa la steppa russa. Si apre in questo modo il primo lungometraggio di Ivan Vyrypaev, molto apprezzato in Russia come sceneggiatore di opere teatrali e cinematografiche.
La storia è la più vecchia del mondo. Un uomo, una donna e suo marito. Intorno ad essi solo l’immensità della steppa. Una trama semplice e lineare che si svolge a sprazzi, con pochi dialoghi e avvenimenti apparentemente mal collegati tra loro, che solo alla fine troveranno un posto come tasselli di un puzzle molto più grande. L’incontro tra i due protagonisti avviene nel silenzio, tra domande colme di dubbi ed un’inesorabile ricerca di quella felicità evocata dal titolo del film. Le sequenze sono legate tra loro solo tramite i fili conduttori della terra, dell’acqua e del vento che accarezza la vegetazione della steppa.
Ciò che caratterizza Ejforija non è dunque l’originalità della vicenda, ma il modo in cui essa viene affrontata. Ogni sprazzo di vita dei personaggi viene presentato come se fosse un capitolo di un libro; ognuno di questi capitoli si aprono e si chiudono con transizioni in nero, come a voler simulare il battito delle palpebre che permettono di aprire gli occhi ogni volta da punti di vista differenti. La macchina da presa durante le riprese aeree segue le strade di terriccio bianco che percorrono la steppa come se fossero arterie pulsanti di un immenso corpo steso, fatto di roccia, terra ed acqua. S’intravedono dall’alto le azioni dei personaggi, anche se l’occhio del regista non si sofferma su quello che stanno facendo, continuando a percorre idealmente quelle strade che sembrano essere infinite, pur non scadendo in un utilizzo da cartolina dell’ambiente naturale che abbraccia il dramma dei due protagonisti. Sembra che Vyrypaev voglia mostrare che ogni storia di uomini è cullata dalla grande madre Russia, dimostrando, coerentemente con la tradizione cinematografica di questo paese, un attaccamento alla terra e all’acqua che la bagna. Gli uomini sono nati dalla terra e dall’acqua e da questi verrà ripreso nel momento della morte. Le vicende, caratterizzate da una certa frammentarietà, acquistano unità proprio perché legate fra loro da questo forte vincolo.
La storia d’amore tra i due protagonisti, fatta di silenzi e sospesi interrogativi, diventa la chiave per uscire dall’isolamento forzato di una terra sterminata che non lascia intravedere confini. I corpi nudi s’incontrano, si cercano, diventano vittime sacrificali di quell’euforia che poi gli ritorcerà loro contro. La struggente (e un po’ ruffiana) colonna sonora accompagna gli sguardi dall’alto e le piccole storie di uomini, incorrendo a volte anche nel rischio di risultare un po’ invadente.
Il pregio di questo film sta nella raffinatezza tecnica con cui è realizzato, ma d’altronde da un’opera russa non possiamo non aspettarci un forte impatto visivo ed emozionale: tutto ciò non si manifesta con grandi scenografie o con mezzi tecnici di grande portata, ma tramite la stessa grandiosità della terra russa. L’autore affronta una storia d’amore, come in fondo ce ne sono tante, con una concezione poetica dell’uomo inserito perfettamente nel contesto in cui vive e che lascia impressi in sé i colori della luce sulle increspature dell’acqua e la luce di un fuoco apparentemente purificatore che si tende verso il cielo.
Un’opera prima molto interessante, che riduce al minimo l’idea stessa di vita intesa come movimento, lasciando scorrere le emozioni, come il fiume che è allo stesso tempo culla e tomba dell’uomo. E uno dei migliori film in concorso.
Regia e sceneggiatura: Ivan Virypayev; fotografia: Andrei Naidenov; musica: Aidar Gainullin; interpreti: Polina Agureeva, Mikhail Okunev, Maksim Ushakov; produzione: First Movie Partnership, Film Studio 2plan2; distribuzione internazionale: The Match Factory GmbH; origine: Russia, 2006; durata: 73’
