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VENEZIA 63: FALLEN

Pubblicato il 4 settembre 2006 da Daniele Coluccini


VENEZIA 63: FALLEN

Osservando il film della regista viennese Barbara Albert, ci si domanda quale sia il criterio di selezione dei film in corsa verso il tanto ambito Leone d’Oro.
Cinque donne si ritrovano dopo molti anni nel paese dove sono cresciute per partecipare al funerale di un caro amico. La situazione potrebbe rivelarsi propizia per far confrontare donne così diverse fra loro e riuscire a far emergere le storie personali di ognuna in relazione all’altra. Potrebbe mostrarci il loro cambiamento nel tempo, l’evoluzione della loro vita, la loro reazione alla perdita di un buon amico. Purtroppo niente di tutto questo.
In molti film sembra esserci una sorta di preferenza per la semplicità, la quotidianità, una predilezione per quelle storie che riescono ad avvicinare l’attore allo spettatore che, nella stragrande maggioranza dei casi, è una persona come tante. C’è una propensione per le sceneggiature fatte di dialoghi verosimili e scorrevoli, di espressioni colloquiali. Tutta la bellezza e il fascino della “normalità” viene purtroppo infranta scadendo troppo spesso nel superfluo. È appunto il caso di Fallen.
È un film che vorrebbe parlare di donne, di donne comuni, dei loro problemi, delle loro ansie, delle loro paure. Per tendere allo scopo Barbara Albert scade in una serie di luoghi comuni e di clichè molto, forse troppo inflazionati. Le cinque protagoniste diventano così la trasfigurazione di tutto ciò con cui ogni donna non vorrebbe mai sentirsi rappresentata. Un film “al femminile” dovrebbe cercare di tenersi il più lontano possibile da tutti quegli stereotipi al quale le donne sono troppo spesso legate. Le cinque malcapitate invece, rientrano perfettamente nella categoria di “sedotte e abbandonate” non soffrendo di problemi legati all’essere umano, ma subendo tutta quella sfera di problematiche legate al genere sessuale femminile. Nei pochi momenti di sobrietà in cui non danzano come delle baccanti, si intravede la loro personalità frustata e frustrante. Quello che però stupisce maggiormente è la volontà della regista di connotare ogni donna del quintetto in modo stereotipico, ci troviamo quindi di fronte alla malcapitata rimasta incinta dopo l’ennesimo rapporto fallimentare, alla galeotta con una figlia che non può vedere, alla donna in carriera che rincorre il successo, in rapporto simbiotico con il proprio telefono cellulare. Sono realmente questi i modelli in cui le donne dovrebbero rispecchiarsi?
Barbara Albert ci mostra il lato peggiore di ogni donna, il tutto condito in modo scarno e privo di interesse. I pochi momenti in cui le donne parlano di sé sono contornati da inutili balletti, trenini di persone neanche degni di una genuinità amatoriale. Si avverte una sorta di “violenza” sullo spettatore costretto ad assistere a qualcosa che non fa parte della storia, totalmente inutile ai fini narrativi che riesce a spossarlo e ad infastidirlo. Si riflette anche a lungo sull’utilità del flash-forward fotografico usato dalla regista; in tutti i momenti in cui viene scattata un’istantanea o nei cambi di scena infatti, viene fermata sullo schermo l’immagine di qualcosa che accadrà. Questo espediente tecnico, che potrebbe rivelarsi un’ottima intuizione, viene miseramente sciupato e utilizzato in modo inspiegabile come mero artificio.
Sono queste le donne? Quelle che bruciano il velo da sposa, quelle che si lasciano trascinare dal vento, quelle che piangono istericamente? Per Barbara Albert pare di sì.

(Fallen); regia: Barbara Albert; sceneggiatura: Barbara Albert; fotografia: Bernhard Keller; montaggio: Karina Ressler; scenografia: Katharina Wöppermann; costumi: Veronika Albert; interpreti: Nina Proll, Birgit Minichmayr, Ursula Strauss, Kathrin Resetarits, Ina Strnad; produzione: COOP 99 - Antonin Svoboda, Martin Gschlacht, Bruno Wagner, Barbara Albert; distribuzione Internazionale: Films Distribution; origine: Austria, 2006


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