VENEZIA 63: I DON’T WANT TO SLEEP ALONE (HEY YANQUAN)

Quando passato, futuro e presente, crocevia di questi due estremi, si fondono, il tempo arresta le sue ragioni. Nel momento in cui narrazione e narratività rifiutano le costrizioni di un qualsiasi sviluppo cronologico, il gesto diviene protagonista; nel cinema, l’immagine si trasforma in tempo. Appare allora superfluo, quasi offensivo, trovare riparo e giustificazione in quella che viene chiamata trama. Al contrario, si invita solo ad osservare, ad entrare in contatto con echi di un cinema lontano, gli stessi echi che hanno sancito la straordinaria crescita di un medium nato come meraviglia tecnologica, come fenomeno da esporre nelle fiere, ma che ha saputo inesorabilmente saturare la vista, rendendola, nel secolo appena trascorso, tra i cinque il senso primario.
Ed è qui, dove non è richiesta alcuna alterazione temporale, ed il ritmo è sancito dall’ontologica essenza di una semplice pellicola, che Tsai Ming Liang pone la sua opera. Hey yanquan (t.ingl. I don’t want to sleep alone) (t.i. Occhi Cerchiati), presentato all’interno di un concorso che, finora non ha riservato grandi meraviglie, richiede impegno e costanza. Richiede innanzitutto di privarsi di qualsiasi attesa, per partecipare attivamente alla costruzione di un senso che, nella soggettività di ogni visione, diviene significato.
Il film è girato in Malesia ed in questa sua prima escursione cinematografica nella terra che gli ha dato i natali, il regista si nutre dell’architettura di un grande edificio abbandonato di Kuala Lumpur. Stabilisce una connessione incessante tra ambiente ed essere umano, tra elementi verticali e orizzontali che si succedono nel contenere la circolarità di pozze d’acqua, topos della sua cinematografia, che divengono paesaggi e riflessi di solitudini che si cercano, si scontrano ed, infine, si uniscono.
Tra un Mozart, il cui flauto risuona di una magia volta all’agrodolce, e la povertà di reiette individualità, Tsai Ming Liang fugge l’ovvietà cercando di allargare ancora di più i confini di un simbolismo condotto sino all’estremo. Decide così di affidarsi ad una fotografia, da lui stesso curata, in cui la luce torna a scoprire le sue infinite modulazioni assestandosi in un grigiore metaforico, espressione di combattimenti feroci tra asfissia e libero respiro.
Nell’impossibilità di una congiunzione carnale la natura mostra il suo ruolo di leopardiana matrigna, ma, allora, l’acqua diviene nuovamente amniotica avvolgendo i suoi figli in un abbraccio tanto ignaro quanto disperato, gettando una speranza fugace, instabile ma, almeno per un attimo, pronta ad essere vissuta.
È sincera l’emozione nell’accostarsi ad un film che legittimamente può essere rifiutato per la sua estrema costruzione formale, per il suo distacco da qualsiasi intento puramente illustrativo e didascalico, ma che, se accolto ed amato, dipinge angosce e fantasmi del presente.
Attraverso la poetica del regista, si coniuga la violenza di ogni singolo gesto con il lirismo che dietro vi è nascosto, conducendo verso un non luogo ed un non tempo che, a ben guardare, sono il nostro luogo ed il nostro tempo.
(Hei yanquan) Regia, soggetto, sceneggiatura, fotografia: Tsai Ming-Liang; montaggio: Chen Sheng-Chang; suono: Tu Duu-Chi, Tang Shiang-Chu; scenografia: Lee Tian-Jue, Gan Siong-King; costumi: Sun Hui-Mey; interpreti: Chen Shiang-Chyi, Lee Kang-Sheng, Norman Atun, Pearlly Chua; produzione: Homegreen Films Co., Soudain Compagnie; distribuzione: Fortissimo Film; origine: Taiwan, Francia, Austria; durata: 115’;
