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VENEZIA 63: JAKPAE - CITY OF VIOLENCE

Pubblicato il 2 settembre 2006 da Giampiero Francesca


VENEZIA 63: JAKPAE - CITY OF VIOLENCE

Una nuvola di cenere incandescente, decine di cuochi nelle loro vesti bianche, affilatissimi coltelli che fendono l’aria, due uomini in abiti eleganti, madidi di sangue, che si battono forsennatamente... in una sola inquadratura tutta l’estetica dello scontro, della violenza, della lotta. Il detective Tae-su torna a casa per il funerale del suo vecchio amico Wnag-jae. Le circostanze della morte però non lo convincono; conosce bene i suoi amici, implicati spesso in faccende losche. Decide così di investigare trovandosi ben presto coinvolto in un grosso affare di collusione fra mafia e politica...
Ancora una volta il cinema asiatico torna a cantare le imprese dei suoi eroi quotidiani, poliziotti, investigatori, detective dai nobili principi e dalla morale impeccabile. Ancora una volta lo fa attraverso un action che esalta la bellezza pura della violenza. Ogni colpo, calcio, pugno si mescola con i successivi in una danza, feroce, ma mai nauseante. Non ci sono plié ne posizioni da eseguire, ma balzi felini per evitare colpi micidiali. L’atto di sparare, colpire, ferire non è visto come singolo elemento, simbolo di vendetta, furia, meschinità ma nel suo complesso come atto di pura grazia. E’ lo sguardo d’insieme a rendere inconfondibili queste pellicole; non c’è chi spara e chi viene colpito, nessun pugno in macchina, ognuno si muove in un contesto più ampio, con decine di attori protagonisti.
L’eroe è proprio lì, che si batte nel quotidiano per difendere i propri valori, la lealtà, l’amicizia. La sua nemesi non è un villain hollywoodiano ma un uomo che non rispetta questi sacri principi, che mente, tradisce, pronto a tutto, a vendere il proprio fratello, a uccidere per denaro. E così siamo di nuovo di fronte all’amicizia virile che lega gli uomini portatori dello stesso credo, qualunque estrazione, passato, vissuto essi abbiano. Non ci sono poliziotti e criminali, colpevoli e innocenti ma uomini privi di etichette, uniti in una sola coscienza. Come non rivedere negli occhi le sequenze di A better tommorrow, come non riconoscere gli stilemi di un genere ormai tanto noto anche a noi occidentali. “Tarantiniano”, così volgiamo definirlo questo modo di rappresentare la violenza come forma d’arte, senza mai prenderla troppo sul serio. Facendolo, però, pecchiamo di presunzione, certi che l’originale sia il grande regista americano e Seung-wan Ryoo un eventuale copia. E’ certamente vero che City of violence deve molto a Tarantino, la scena dello scontro fra i due protagonisti e la folla di cuochi, tutta ripresa dall’alto ricorda moltissimo le scene di massa di kill bill vol. I, ma è altrettanto sicuro che Seung-wan Ryoo abbia negl’occhi Park Chan-wook, suo maestro non a caso molto amato dall’autore di Pulp Fiction. Così come Tarantino aveva certamente nella mente le scene degl’action di Honk Kong prima di realizzare le sue pellicole.

Regia: Seung-wan Ryoo; sceneggiatura: Jeon-min Kim, Lee Won-jae, Ryoo Seung-wan; fotografia: Kim Yeong-cheol; montaggio: Na-yeong Nam; musica: Jun-Seok Bang; interpreti: Ahn Kil-kang, Jeong Seok-yong, Jung Doo-hong, Lee Beom-su, Seung-wan Ryoo; produzione: Jeong-min Kim, Seung-wan Ryoo; origine: Corea del Sud, 2006; durata: 92’


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