X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



VENEZIA 63: SANG SATTAWAT

Pubblicato il 31 agosto 2006 da Giampiero Francesca


VENEZIA 63: SANG SATTAWAT

Trovarsi davanti ad un film come Sang sattawat pone degl’interrogativi che precedono all’analisi stessa della pellicola. Per poter infatti approfondire, sviscereare i singoli elementi che compongono un opera bisogna conoscere innanzitutto il linguaggio con il quale questa è stata realizzata. Il problema nel caso di Apichatpong Weerasethakul è dunque di carattere semantico: i segni, le cifre utilizzate dal regista sono quasi totalmente incomprensibili agli occhi di un occidentale. Un’opera criptica, non in quanto complessa, enigmatica, ambigua ma proprio perché cifrata, realizzata con un codice differente, indecifrabile.
Il racconto di per sé non rappresenterebbe un ostacolo alla comprensione del film: un giovane infermiere cerca di conquistare il cuore della bella dottoresssa Thoey. Nella prima parte della pellicola quest’incontro è ambientato nell’epoca della giovinezza del regista, in un paese della provincia tailandese, nella secondà metà le lancette del tempo corrono avanti giungendo ai giorni nostri in un mastodontico ospedale di una grande città. Il mondo in cui queste storie vengono narrate, l’utilizzo sfrenato e apparentemente ingiustificato del flasback, il soffermarsi su dettagli insignificanti rendono però la visione del film alquanto complessa. Partendo da questi presupposti si può procedere solamente per ipotesi. Supporre, ad esempio, che un contrsto così netto fra l’ambiente passato, verde, rigoglioso, e quello moderno, bianco e asettico, riproponga il tema del difficle rapporto dei paesi in via di sviluppo con la modernità. Tema questo molto caro alla cinematografia orientale ma che, in questo caso, non sembra supportata da sufficienti prove. Se da un lato infatti il raffronti fra le atmpsfere è decisamente a favore del passato la relazione fra medici e pazienti è tutta appannaggio del presente. I nuovi mezzi in dotazione al grande ospedale consento di curare prima e meglio i malati e le migliori condizioni di vita appaiono evidenti. Si potrebbe dunque proporre Weerasethakul come un cantore della quotidianeità, delle piccole cose, e , in riferimento al passato, come ad un poeta della memoria, dei ricordi a volte anche insignificanti che però costiuiscono il nostro passato. Pur ammettendo quest’ipotesi come giustificare i continui riferimenti allegorici? Come motivare un uso così narrativo del colore e della sua forza? Che relazione hanno questo espedienti con il realismo quotidiano delle piccole cose?
Una pellicola dunque che spiazza lo spettatore, incapasce di prendere posizione al cospetto di questo film, provocando spesso una reazione di ironia involontaria. Un’opera che nel suo balazare avanti e indietro negli anni vorrebbe sospendere il tempo, altro elemento chiave di molta cinematogrfia orientale, ma che nel farlo lo trascina con se lasciando lo spettattore completamente attonito.

Regia e sceneggiatura: Apichatpong Weerasethakul Fotografia: Sayombhu Mukdeeprom Montaggio: Lee Chatametikool Interpreti: Nuntarut Sawaddikul, Jaruchai Ieamaram, Nu Nimsomboon, Sophon Pookanok, Arkanay Cherkam, Sin Kaewpakpin, Sakda Kaewbuadee, Jenjira Jansuda Origine: Tailandia Durata: 105’


Enregistrer au format PDF