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Why Don’t You Play in Hell

Pubblicato il 31 agosto 2013 da Salvatore Salviano Miceli

VOTO:

Why Don't You Play in Hell

I temi sono tanti e si mischiano tra loro in un racconto che fa di una ragionata confusione il suo tratto più caratteristico. Così Why Don’t You Play in Hell si concentra tanto sulla sua natura metacinematografica quanto sulle tipiche atmosfere dei film dedicati alla Yakuza.
Sion Sono si diverte, e non fa nulla per nasconderlo, nel lanciarsi in improbabili quanto spettacolari combattimenti tra opposte famiglie appartenenti alla mafia giapponese, che finiscono con l’occupare gli ultimi trenta travolgenti e divertenti minuti del film. Prima di arrivare però all’esplosivo epilogo tocca fare i conti con una prima parte cui spetta raccontare gli antefatti che porteranno alla deflagrazione finale. È qui Sono pecca probabilmente di eccessiva prolissità. Divertente l’ironia con cui si prendono amabilmente in giro l’esasperazione cinefila, così come la ritualità tipica del gangster movie in salsa orientale. In più di un’occasione il racconto, però, si trascina un po’ troppo, sia per una caratterizzazione dei personaggi che pare non trovare mai fine, che per le ripetizioni, assolutamente non necessarie, di situazioni cui spetta il compito di provocare ed accentuare l’elemento paradossale della storia.
Protagonisti sono due capifamiglia Yakuza rivali, Muto e Ikegami, legati tra loro dalla presenza della figlia del primo, Michiko, di cui il secondo è segretamente innamorato. Nel tentativo di Muto di realizzare il sogno della moglie, in procinto di uscire di galera, di vedere Michiko protagonista affermata di un film, si incroceranno le storie di Hirata e del suo gruppo, devoti cinefili le cui adolescenze e giovinezze vengono sacrificate al "Dio Cinema" in attesa dell’occasione che arriverà, inaspettata, proprio quando le speranze stanno per venire meno.
La struttura narrativa, piuttosto classica, viene sconvolta letteralmente dalla riflessione/omaggio che Sono dedica al mezzo cinematografico. Il cinema interviene prepotentemente nelle vesti di vero e proprio personaggio. Evocato e venerato sin dal principio, ruba letteralmente la scena nel lungo epilogo. L’intento non è tanto quello di mostrare cosa avviene dietro la mdp quanto, piuttosto, di giocare con le regole che si celano dietro il racconto cinematografico. In questa ottica sono anche da intendere le numerose citazioni (Kill Bill quella più smaccata e divertente) che accompagnano l’intera narrazione. Le fatiche della prima parte quindi si dimenticano in fretta davanti alla brillantezza sconclusionata che accompagna il riaccendersi delle luci in sala.


CAST & CREDITS

(Why Don’t You Play in Hell); Regia, soggetto, sceneggiatura, musica: Sion Sono; fotografia: Hideo Yamamoto; montaggio: Junichi Ito; interpreti: Jun Kunimura (Taizo Muto), Shinichi Tsutsumi (Jun Ikegami), Hiroki Hasegawa (Don Hirata); produzione: Bitters End, Gansis, King Record Co., T-Joy; origine: Giappone, 2013; durata: 119’;


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