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Il mondo dei replicanti

Pubblicato il 11 gennaio 2010 da Marco Di Cesare


Il mondo dei replicanti

Surrogates recita il titolo originale de Il mondo dei replicanti: ’Surrogati’, ’sostituti’, con tutto l’armamentario che dietro si portano questi termini per quanto riguarda sia la sottrazione e la diminuzione di valore che, in questo caso, il suo opposto, ossia il raddoppiamento. Tutto ciò, però, fa sentire un peso eccessivo fino all’insostenibile su di un film esile e debole, tratto dall’omonima graphic novel di Robert Venditti e Brett Weldele che è stata portata sul grande schermo dagli autori di Terminator 3: Le macchine ribelli, ovvero il regista Jonathan Mostow e gli sceneggiatori Michael Ferris e John D. Brancato. Sei anni sono trascorsi da allora, senza che il regista abbia più lavorato per il cinema, mentre i suoi collaboratori in quel lasso di tempo si sono tenuti in forma con gli script di Catwoman e Terminator Salvation.

In un vicino futuro prossimo venturo che appare come una diretta filiazione del nostro presente, l’umanità vive in modo pacifico grazie all’invenzione di replicanti che hanno sempre più sostituito i «sacchi di carne» nelle faccende di ogni giorno, quelle che investono la convivenza civile al di fuori dalle quattro mura della propria stanza. Tali esseri artificiali sono controllati dalle loro controparti umane, le quali passano il tempo sdraiate su di una poltrona, inforcando dei visori che permettono loro di ’vivere’ attraverso quegli umanoidi, automi più o meno sofisticati, dall’aspetto sempre curato, manichini senza difetti, eternamente giovani e belli. Solo una piccola parte della società resiste all’imperante dominio della tecnologia: si tratta di chi vive nelle cosiddetta ’Riserva’ – come quella di Boston, dove il film è ambientato - e ha accettato di ritrovarsi sotto la guida di un leader chiamato ’Il Profeta’. Però la situazione all’esterno, nel mondo non più vero, vedrà formarsi le prime crepe quando verranno distrutti alcuni umanoidi mediante un’arma mai vista prima che, incredibilmente, riuscirà a oltrepassare le barriere di sicurezza e a friggere il cervello di chi è comodamente sdraiato dentro casa; tra gli altri rimarrà ucciso il figlio del Dr. Lionel Canter (James Cromwell), l’ormai anziano inventore dei replicanti. Sul caso indagheranno l’agente dell’FBI Tom Greer (Bruce Willis) e la sua collega Peters, ambedue per interposti surrogati.

Ci troviamo come di fronte a dei Doppelgänger, quindi, a dei doppi maligni (perché negativi) che rivelano implicitamente la debolezza dell’essere umano, nascondendo la parte corporea di quest’ultimo (un essere comunque primigenio e perciò positivo, fatto della carne e dello spirito il cui vero posto dovrebbe sempre trovarsi nella realtà di tutti i giorni, per quanto potenzialmente dolorosa), indebolendola e perciò diminuendola di valore, di pari passo con quella prettamente interiore. E qui si fa sentire la tematica assai attuale dei corpi che sono oggetti estranei all’umano, ma del quale diventano emanazione ed estensione, come qualsiasi periferica di acquisizione esterna ai nostri sensi e che questi sostituisce, fino a diventare interamente la rappresentazione stessa del Corpo e dell’Io e, in un certo senso, prendendone il possesso. Protesi che diventano talmente importanti da costituire un’incarnazione che in parte si mostra sia secondo il suo aspetto religioso e spirituale, sia sotto quello più comunemente datogli oggigiorno all’interno della realtà virtuale: un Avatar dunque, come se in tale modo tra l’altro si fosse voluto nuovamente incrociare la strada di James Cameron, sei anni dopo, ma stavolta in maniera ancora più diretta, inoltre come per raddoppiare quello sguardo sul Presente che è come un’ossessione per Il mondo dei replicanti, pellicola che vive in quanto emanazione del nostro presente, ancor più che in tanta altra fantascienza cinematografica e televisiva.
Il problema del film, però, risiede nel peccato più grave per un’opera, ossia le manchevolezze nella forma attraverso cui tenta di esporre i propri contenuti, risultando deficitaria proprio per quanto concerne l’aspetto fondamentale dell’organizzazione e dell’esposizione del discorso in essa contenuto e svilendo, pertanto, gli stessi concetti che si vorrebbe veicolare. Invece solo la prima mezzora del film di Jonathan Mostow, la prima delle tre parti nelle quali può essere diviso, sa generare un’attenzione che graffi la materia narrata, anche grazie a una buona dose di ironia mostrata senza alcuna superflua esibizione, riuscendo a introdurre pensieri che, seppur non particolarmente notevoli, risultano comunque degni. All’opposto tutto cambia dopo l’incontro con i ribelli, uno scontro che si conclude con una citazione presa da tanti film con robot-nemici dell’umanità, i Terminator di turno che devono essere messi fuori uso. A quel punto, mentre lo script cerca di dare una sterzata più intimista, il film piuttosto sprofonda in una frenetica inedia, proprio a causa di questo mancato accordo tra forma e contenuto, di questo squilibrio tra action e interiorizzazione, fino a fallire completamente come esempio di fantascienza umanista, meta prefissata e traguardo da raggiungere colmi di speranza.
E pensare che il tema della rinascita di un corpo e di una mente abbandonati a se stessi ultimamente in America è stato molto meglio affrontato dalla televisione, come stanno a dimostrare i casi di Dollhouse e FlashForward, i quali, nonostante alcuni difetti, sanno proporre con una certa convinzione proprio quell’umanesimo collettivo e globale e il senso di appartenenza (a un credo) e di rinascita (attraverso quel credo). Mentre invece Il mondo dei replicanti a tratti non sembra neanche credere più di tanto nell’ideale che porta avanti, a causa di un adagiarsi sull’azione più spiccia e sull’intrigo più trito, quasi come se tutto fosse stato solamente un pretesto per sporcare qualche pagina bianca chiusa in un cassetto e per imbrattare qualche schermo sparso sul globo. E di certo non possono bastare le non troppo frequenti, ma tuttavia fastidiose, inquadrature sghembe, un po’ à la Terry Gilliam, un po’ à la L’esercito delle 12 scimmie, caposaldo della fantascienza apocalittica con Bruce Willis protagonista di una splendida pellicola che parla di Morte dell’umanità assieme al tentativo di scongiurarla e di vivere così una Rinascita, di vivere quindi almeno una seconda volta, come il James Stewart e la Kim Novak della Vertigo hitchcockiana che Gilliam mostra apertamente. Ma nel film di Jonathan Mostow non vi è alcuna vertigine, non vi sono le distorsioni degli universi folli, le increspature che possano intaccare una superficie fin troppo quieta che rende alquanto anonimo proprio quel lato umano che vorrebbe portare fuori dai pericoli dell’anonimia prossima ventura.


CAST & CREDITS

(Surrogates); Regia: Jonathan Mostow; sceneggiatura: Michael Ferris e John Brancato, tratta dall’omonima graphic novel di Robert Venditti (sceneggiatura) e Brett Weldele (illustrazioni); fotografia: Oliver Wood; montaggio: Kevin Stitt; musica: Richard Marvin; interpreti: Bruce Willis (Agente Tom Greer), Rosamund Pike (Maggie Greer), Radha Mitchell (Agente Jennifer Peters), James Cromwell (Dr. Lionel Canter), Ving Rhames (Il Profeta); produzione: Touchstone Pictures, Mandeville Films, Road Rebel; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures Italia; origine: USA, 2009; durata: 82’; web info: sito ufficiale.


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