Borderland - Linea di confine

È a nostro parere lecito pensare che gli affezionati del genere horror, come pure i cultori del Bello in generale, non abbiano di che lamentarsi di questa stagione che sta per esalare l’ultimo respiro, perché già accarezzati da molteplici brividi che hanno rappresentato gioie profonde: dal capolavoro assoluto, Martyrs, allo splendido crepuscolo di Lasciami entrare, fino all’unico New american horror, ossia il televisivo True Blood. E, accanto a tali futuri mostri sacri, a questi nuovi sguardi sull’orrore del mondo, potrebbe non sfigurare neanche il ’piccolo’ Borderland, opera del 2007 resuscitata apposta dalla distribuzione italiana per convincerci a rintanarci in qualche confortevole sala, ben al riparo dalla canicola estiva.
Il desiderabile refrigerio di un cinema, certo, anche se sullo schermo l’atmosfera si farà subito calda, quando due poliziotti entreranno in una villa apparentemente disabitata nei pressi di Città del Messico, seguendo le tracce di un narcotrafficante. I due troveranno i segni di strani riti. E si imbatteranno in qualcosa di terribile.
Passa un anno. Un folto gruppo di ragazzi si diverte in un campo estivo in Texas: tre amici però, alquanto annoiati, decideranno di andare in Messico per svagarsi a poco prezzo. Ed, Phil e Henry – questi i loro nomi - si dirigeranno verso Tijuana, luogo di passaggio che non è più Stati Uniti d’America e non è ancora Messico.
Il regista Zev Berman si è ispirato a un fatto di cronaca, ricordo di un suo viaggio in Messico nella primavera dell’89, quando venne fermato da alcuni poliziotti alla ricerca di un ragazzo americano, Mark Kilroy, finito nelle mani di un gruppo di trafficanti di droga (guidati da uno statunitense di origini cubane, Adolfo de Jesús Constanzo) che compivano riti satanici per invocare la protezione degli dei sui loro commerci. La polizia venne messa sotto pressione dalle autorità texane, mentre in precedenza con minore zelo si era indagato sul ritrovamento di vari cadaveri, quelli di travestiti e di pusher del luogo, trovati orrendamente mutilati.
L’utilizzo di uno spunto realistico può lasciar facilmente pensare al sempiterno Non aprite quella porta, falso documento che non rivela di essersi ispirato alle gesta del serial killer Ed Gein, o anche al più recente Wolf Creek, un po’ più veritiero e molto meno interessante. E il documentarismo in Borderland diviene un occhio che guarda il mondo colorandolo in modi diversi, desaturandolo come se ci si trovasse di fronte a un reperto rovinato, sovraesponendolo, oppure facendo risaltare l’effetto di funghi allucinogeni, sparando luci contro luci in un luna park immerso nell’oscurità della notte.
Accentuazione del vedere che, tuttavia, fa da pendant a una limitazione della vivisezione splatter, fatta eccezione per il prologo, durante il quale saremo testimoni dell’orrore massimo, ossia la definitiva limitazione delle funzioni scopiche di uno dei personaggi in scena, mentre un altro è costretto ad essere spettatore di tale raccapriccio. Ciò segnerà un limite oltre il quale non potremo più andare (limite che il Pascal Laugier di Martyrs ha genialmente oltrepassato, mostrando il viaggio di Anna verso la visione ultima, l’astrazione riflessa nella sua pupilla, fermandosi poco prima dell’invisibile e rendendolo definitivamente impronunciabile grazie a Mademoiselle). Da quel momento in poi Borderland potrà dedicarsi ad esplorare anfratti maggiormente psicologici, agendo tra campo e fuori campo, mostrando e non mostrando, facendo prendere fuoco al narrato e raggelandolo con una certa capacità di regia che velocizza e rallenta la pellicola a suo piacimento, senza cali di tensione lungo la sua non breve durata.
Passando attraverso i pericoli in cui possono incorrere i Turistas nell’epoca della globalizzazione, è facile giungere all’assai vituperabile Eli Roth (il cui esordio, Cabin Fever, ha in comune con Borderland sia il direttore della fotografia, Scott Kevan, che due produttori, oltre a uno dei protagonisti, Rider Strong): ma Hostel, opera campione d’incassi di un regista il cui unico contenuto finora è stata la morte in vacanza, è foriera di uno sguardo ricco solo delle intenzioni di un discorso, occhio piccolo-borghese dal quale Berman riesce invece ad allontanarsi con una certa classe. Giacché, come accennato prima, qui il gore non è mai tarantiniamente compiaciuto, non vi è alcun divertente gioco cui assistere. Mentre prevale spesso il terrore, legato a claustrofobiche persecuzioni e alla loro attesa, accompagnata da musiche strumentali dove prevalgono, di volta in volta, percussioni concitate o tastiere cariche d’atmosfera, note tese di chitarra elettrica o indefinibili voci demoniache memori di Suspiria. Ma basterà una parola, una sola – ’Desaparecidos’ - pronunciata al momento giusto da Valeria (Martha Higareda, delicatamente affascinante) per farci venire la pelle d’oca, mentre vediamo sfilare i parenti degli scomparsi, lasciati soli da una polizia che si è arresa di fronte al potere de Il padrino (citato attraverso il ritrovamento in un letto della testa di un animale), come accade in una qualsiasi dittatura o, all’opposto, in un qualunque Paese dove lo Stato è completamente assente. Poiché l’intera cittadinanza è schiavizzata da un Potere nascosto ma conosciuto a tutti, mentre per ogni dove è insistita la presenza di simboli legati alla religione cattolica, in una territorio dove molte sono le divinità: particolari, questi, che danno vita a un orrore in quanto sentimento puro, trascendente quasi.
Spiriti, folklore: tutto concorre a creare un altro mondo, un aldilà in quell’al di qua che poggia ben saldo i piedi sul terreno, estranea quotidianità di hooperiana memoria. Eppure Valeria, in risposta alle rimostranze del repubblicano Henry, dirà: «Terzo mondo? Ma perché, negli Stati Uniti non rapiscono mai nessuno?». Da ciò nasce una dissertazione che risulta essere la più ampia possibile, di certo non innocua, acuita da momenti di pungente ironia, come quando l’unico americano appartenente alla setta, un pericoloso sbandato, si lamenterà dei suoi compagni, definendoli come maledetti mangiafagioli che «Lasciano a me il lavoro sporco, perché sono clandestino». Perché l’atrocità è qui raffigurata attraverso la sua quotidiana tangibilità, messa in scena dell’operato di persone ’normali’ che si considerano speciali («Pazzi! Pensano di essere morti e se ne vantano»).
E la stessa pellicola ritrae un continuo attraversamento, uno sconfinamento ripetuto, costituendo un luogo di passaggio e di incrocio tra generi diversi: dallo splatter al thriller, dal western al dramma. Fino all’assedio finale, un déjà vu già visto in decenni di cinema sulla frontiera nei film con cowboy e indiani, compresi La notte dei morti viventi o Cane di paglia. Finale inquietante, viaggio al termine di una notte che giunge improvvisa, senza concludere interamente il suo percorso catartico, rimanendo sospesa nel lento imbrunire dello schermo - ossia quella terra di nessuno che viene prima dei titoli di coda - mostrando fin dove possa giungere una persona ’comune’ e quale mediocre normalità si nasconda dietro la peggiore aberrazione. Fuori campo, perché già tanto sangue è stato offerto sull’altare della percezione.
(Borderland); Regia: Zev Berman; sceneggiatura: Eric Poppen e Zev Berman; fotografia: Scott Kevan; montaggio: Eric Strand; musica: Andrés Levin; interpreti: Brian Presley (Ed), Rider Strong (Phil), Jake Muxworthy (Henry), Beto Cuevas (Santillan), Martha Higareda (Valeria), Sean Astin (Randall), Damián Alcázar (Ulises), Marco Bacuzzi (Gustavo); produzione: Tonic Films, Emmett/Furla Films, Freedom Films, Tau Productions; distribuzione: Mediafilm; origine: USA e Messico, 2007; durata: 105’; web info: sito ufficiale.
